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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il riformismo di Renzi e Bersani

I TORTI (E LE RAGIONI) DI RENZI E BERSANI DUE RIFORMISTI DESTINATI A NON INCONTRARSI

19 aprile 2015

Non sappiamo come andrà a finire lo scontro in atto dentro il Pd, l’unica dialettica (si fa per dire) che questo “sarchiapone” di sistema politico è in grado di generare. E saremmo anche tentati di aggiungere che poco ce ne importa, se non fosse che le questioni in ballo – la riforma istituzionale e la nuova legge elettorale – sono decisive ai fini del funzionamento, o meno, del sistema paese. E quindi della sorte di tutti noi. È che tra Renzi e Bersani, siamo indotti a dar torto ad entrambi. Al presidente del consiglio perché ha sfornato due riforme, quella del Senato e quella del sistema elettorale, che non ci piacciono ma soprattutto che giudichiamo una cattiva risposta a domande di governabilità più che fondate. All’ex segretario del Pd – tornato prepotentemente alla ribalta per assumere la leadership della contestazione interna (e d’altra parte, chi se no?) – perché riteniamo che su questi temi abbia tre torti di non piccolo conto: è arrivato tardi, dando la sensazione all’opinione pubblica che si tratti di una battaglia di potere e di revanche più che di un confronto costruttivo; ha fatto obiezioni giuste ma inquinate da parole d’ordine, come “siamo in democratura” (crasi tra democrazia e dittatura), di tipo anti-renziano copia e incolla di quelle dell’epoca anti-berlusconiana (non sono di Bersani, è vero, ma di chi sta con lui sì) che non danno credibilità, anzi, alle argomentazioni di merito; non è portatore, come avrebbe dovuto e ancora dovrebbe fare, di una proposta alternativa, magari che riprenda le migliori esperienze europee, ma solo di pezze (più o meno buone) da mettere all’impianto delle riforme renziane. Non è difendendo genericamente il parlamentarismo che si può conquistare il consenso degli italiani. Che poco ci capiscono – giustamente, peraltro, queste sono questioni che non si addicono alle discussioni al bar – ma che hanno due cose chiare in testa: che l’Italia ha bisogno di un sistema istituzionale capace di produrre decisioni in modo rapido e ordinato, e che quello sperimentato – più precisamente, quello dell’ultima fase della Prima Repubblica, di tutta la Seconda e della Seconda bis (l’attuale) fin qui – non ha funzionato. Semmai il tema è quello di avere maggiore governabilità in un contesto di pesi e contrappesi che rendano equilibrato e funzionale il rapporto tra parlamento e governo. Sapendo che il consenso popolare non può essere surrogato da premialità che possono anche assegnare a tavolino maggioranze parlamentari forti, ma che inevitabilmente sono destinate a rivelarsi politicamente deboli proprio perché non sufficientemente rappresentative. E che, dunque, le coalizioni sono il sale e non il veleno della democrazia, come erroneamente si tende a far credere. Anche perché altrimenti sono i partiti, come vediamo quotidianamente (a proposito, vi ricordate la profezia di Terza Repubblica circa il fatto che tanto il Pd quanto Forza Italia erano destinati a sfasciarsi…?), a diventare essi stessi coalizioni.

Bersani, che è uomo saggio e navigato, tutte queste cose le sa. E per questo manda segnali a Renzi, come il colloquio con Giuliano Ferrara che sul Foglio ha lanciato la proposta “parlatevi e alleatevi”. E Renzi, che è uomo furbo e svelto, ha colto mandando a sua volta segnali di disponibilità sulla questione del Senato. Tattica. Perché Renzi non può allearsi con chi ha dovuto rottamare per conquistare i voti dei moderati (senza i quali non va da nessuna parte) e Bersani non può favorire il disegno dell’antagonista di creare le condizioni per andare al voto anticipato potendo dare la colpa ai vecchi ex comunisti. Sentiamo già l’obiezione di Ferrara: ma i due sono politicamente molto più vicini di quanto non si pensi. Vero. Ma sono prigionieri di uno schema di gioco che non lascia loro margini. E che finirà per penalizzarli entrambi, a prescindere da chi sarà il vincitore di questa contesa. Perché agli occhi degli italiani, che sono indotti a pensare – e come dar loro torto – che sia sul terreno dell’economia che vada giudicata la politica, e il governo in particolare, queste continueranno ad apparire pure schermaglie politiche. Tra l’ennesimo set del ping pong sull’Italicum e la notizia che il Fondo Monetario ci assegna mezzo punto di crescita del pil per quest’anno (contro la previsione di +0,7% del governo, peraltro definita volutamente prudente), cioè solo un terzo di quanto pronostichi per l’eurozona nel suo insieme (mentre finora eravamo attestati alla metà della media Ue), o tra le aperture per ritrasformare in elettivo il Senato declassato a dopolavoro per consiglieri regionali e la notizia che il nostro debito pubblico ha stabilito il nuovo record storico di 2.169,2 miliardi, secondo voi gli italiani – e in particolare quelli che producono ricchezza per sé e per gli altri – a cosa hanno dato peso? Forse sarebbe bene che entrambi gli uomini forti del Pd riflettessero su questa osservazione. Che non ha nulla di populista, perché, ripetiamo, a noi è chiarissima l’importanza strategica delle riforme di sistema, ma non ci sfugge nemmeno come la fiducia o la sfiducia del Paese nei propri mezzi per uscire dal declino, stia molto più collocata sul fronte dell’economia. Ci riflettano, Renzi e Bersani, prima che il patrimonio di speranza accumulato nell’ultimo anno – e che rappresenta il vero risultato positivo conseguito dal governo – vada a farsi benedire.

 

 

 

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