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L'editoriale di TerzaRepubblica

Addio pacificazione?

GUAI SE TORNA (COME PARE) LA POLITICA GUERREGGIATA

14 febbraio 2015

Un (brutto) film già visto. E non è solo lo spettacolo indecoroso offerto in queste ore dalla politica in Parlamento, cui ormai abbiamo fatto il callo ma che con generosità potremmo catalogare come folclore. No, ciò che più ci preoccupa è il ritorno ad una conflittualità patologica che dal governo Monti in poi, e in particolare con Renzi e il “patto del Nazareno”, si era riusciti a riportare nell’alveo della fisiologia. Dopo 17 anni di bipolarismo militarizzato, francamente non si sentiva la necessità di una riedizione del “tutti contro tutti”. Chiusa la stagione dell’antiberlusconismo – e non per stanchezza degli antagonisti, ma per evaporazione del Cavaliere (ormai ex) – se ora si apre quella dell’anti-renzismo stiamo freschi. Eppure ce ne sono tutti i segni. E la storia rischia di ripetersi allo stesso modo.

 

Prendete le dinamiche cui stiamo assistendo e confrontatele con quelle che hanno riempito gli annali della Seconda Repubblica. Ieri c’era il blocco di potere coagulato intorno alla figura di Berlusconi, oggi intorno a quella di Renzi. L’uno era il padrone, capace di comprarsi tutto e tutti ma incapace di detenere e gestire il potere, l’altro è il comandante, che ha fatto della spregiudicatezza politica, oltre che della rapidità di manovra, il bastone che gli assicura il controllo. L’uno era il collante che teneva insieme il variopinto mondo di chi gli era pregiudizialmente contro, l’altro è il “one man show” che divide il mondo tra chi è con lui e che contro di lui. L’uno era un piacione che aveva nemici interni che avrebbero voluto farlo fuori ma che hanno trovato il coraggio di farlo solo quando era lui a porre gli out-out (Casini, Fini, Tremonti), l’altro è un despota che usa la cattiveria come arma politica che si cerca i nemici ovunque, a cominciare dalla sua parte politica, e li attacca per costruirsi il consenso. Cambiano le situazioni ma non lo schema di fondo. Oggi come ieri le divisioni tra e nelle opposizioni creano le condizioni per conquistare Palazzo Chigi e rimanerci, ma nello stesso creano anche le premesse per generare dentro il partito leader o nelle maggioranze di governo i veri focolai di opposizione. E non è sana la democrazia in cui le tensioni politiche sono molto più forti dentro la maggioranza e dentro le opposizioni che non tra maggioranza e opposizioni. Anche oggi come ieri, poi, le responsabilità della conflittualità permanente vanno equamente divise tra il leader maximo e gli “anti”. Berlusconi era divisivo suo malgrado, Renzi lo è per scelta, ma il risultato rimane la guerra delle persone e non delle idee.

 

Il guaio è che dalla politica guerreggiata si era in qualche modo riusciti ad uscire. Sono tante le cose che hanno consentito questa evoluzione: l’emergenza del 2011 e l’arrivo sulla scena di un tecnico alieno al conflitto politico come Monti, la moral suasion di Napolitano e la supplenza da lui esercitata, il governo delle larghe intese guidato da Enrico Letta, la stessa affermazione di Renzi su una linea moderata che spostava il Pd al centro e la costruzione di un patto di non belligeranza con Berlusconi (che solo gli stolti hanno ideologicamente avversato, dipingendolo come uno strappo alle regole democratiche). Persino l’irrompere sulla scena di Grillo è stato funzionale ad archiviare una stagione politica, quella del bipolarismo malato, che ci regalato il declino e una spaventosa crisi economica. Sia chiaro, la fine della Seconda Repubblica ha solo inaugurato una fase di transizione, tuttora in corso, che non ci ha (ancora) dato né le riforme istituzionali che servono ad aprire la Terza Repubblica, né le riforme economiche che ci consentano di imboccare con decisione la strada della rinascita e dello sviluppo. Ma è pur sempre una ropture con due decenni disastrosi, una premessa necessaria al voltar pagina. Se però ora mettiamo fine alla fin troppa lunga transizione iniziata nel novembre 2011 non andando avanti verso un sistema politico maturo, pacificato, più moderno, ma tornando indietro, allora tutto sarà stato vano, e il declino non troverà più anticorpi. Già la fiducia stenta a tornare, come dimostra la curva ancora troppo piatta di investimenti e consumi, figuriamoci cosa succede se ci permettiamo di riesumare ciò che gli italiani – tutti, anche quelli che si erano mostrati bipolaristi a oltranza – hanno volentieri seppellito con il loro voto.

In queste ore si dice che il tema stia tutto dentro il centro-destra e in Forza Italia in particolare. Noi ci siamo già permessi di dubitare che questa sia la lettura giusta. Non perché ci sfugga il processo di disintegrazione che sta frullando ciò che rimane delle componenti più di governo che di lotta dell’area moderata (Forza Italia, Scelta Civica e Ncd) a favore di quelle di lotta (e che lotta!) come la Lega in versione lepeniana. È che non meno preoccupante è ciò che accade nel Pd e a sinistra, perché delle due l’una: o Renzi paga il fio (dopo averlo già fatto con l’elezione di Mattarella) alla sinistra interna ed esterna al suo partito – ma in questo caso perde la capacità che fin qui ha dimostrato di conquistare il voto moderato, e fa sì esplodere il problema della mancanza di leadership politica del centro-destra – oppure torna al Renzi che manda a quel paese la Cgil sull’articolo 18, e allora i suoi oppositori interni (molti di più di quelli che si sono già palesati) lo mollano. In tutte e due i casi, le conflittualità si sommano, e la politica rischia di tornare nella palude dello scontro infinito e fine a se stesso.

 

Il problema, dunque, riguarda tutti, nessuno escluso. Compreso il nuovo inquilino del Quirinale, di cui apprezziamo il silenzio e il low profile, ma che non può mancare di rendere consapevole il Paese dei pericoli che corre se la politica butta a mare l’unica cosa che è stata capace di realizzare negli ultimi tre anni, la pacificazione.

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