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L'editoriale di Terza Repubblica

Progetto per l'Italia

L’ITALIA È DA RICOSTRUIRE, LA RICETTA È “LIBERAL-KEYNESIANA” È VENUTO IL MOMENTO CHE RENZI DEFINISCA UN GRANDE PROGETTO

06 dicembre 2014

“Non so tutto, ho bisogno di imparare”, ha detto Matteo Renzi parlando della collaborazione chiesta (e ottenuta) all’ex amministratore delegato della Luxottica, Andrea Guerra. Questa ammissione – che già di per sé ha un valore, in un mondo di nani che fanno finta di essere giganti – può rappresentare un buon punto di partenza per la tanto auspicata svolta. Perché a Renzi va riconosciuto il merito di aver individuato ciò di cui dobbiamo sbarazzarci, ma ha bisogno di convincerci – e finora non l’ha fatto – di essere anche capace di individuare e realizzare ciò di cui abbiamo bisogno. Finora ci hanno pensato i suoi nemici a mascherare il gap tra la sua dimensione destruens e quella costruens. Perché pur avendo al loro arco molte frecce acuminate – dalle condizioni dell’economia, che i pannicelli caldi governativi (80 euro e simili) hanno lasciato gravi così come l’avevano trovati, alla deprorevole abitudine di annunciare scadenze a raffica per poi rinviarle o addirittura farle cadere nell’oblio – alla fine gli anti-renzisti preferiscono usare i vecchi arnesi dell’offesa ideologica e personale, quelli rodati in anni di “antiberlusconismo”. Noi che in questa sede non abbiamo mai smesso di “marcare stretto” con estrema severità, pur con spirito costruttivo, il presidente del Consiglio, gli riconosciamo, con tutta l’onestà intellettuale di cui disponiamo, il merito di aver messo in mora la vecchia sinistra massimalista e giustizialista, suonando la fine di una stagione che andava chiusa prima ancora che cominciasse. Ma tutto questo non basta per creare i presupposti perché se ne apra una nuova. Renzi, se vuole portare fino in fondo il lavoro di riconversione culturale del Pd ma soprattutto se intende iniziare un lavoro di ricostruzione del Paese, deve spingere il dibattito politico fuori dal recinto angusto delle “emergenze”, e disporsi ad aprire un ragionamento costruttivo – senza guerre contro mille nemici – di carattere più strategico.

Per esempio, perché non cogliere la provocazione di D’Alema quando predica “più Stato meno mercato”? E perché non entrare nel merito dell’analisi del Censis, specie quando De Rita contesta la tendenza alla disintermediazione delle rappresentanze, alla delegittimazione degli enti e dei soggetti intermedi, alla rottamazione delle varie forme di concertazione, di cui lo stesso Renzi si è fatto protagonista? Certo, la discussione è inquinata dalla lotta in atto tra Renzi e il resto d’Italia (inteso come somma di tutti i vecchi poteri), ma ciò non toglie che sia il caso – depurandola – di prenderla sul serio.

Nell’attesa che lo faccia, ci proviamo noi. Partendo dal presupposto che non si possono affrontare le questioni sollevate da D’Alema e De Rita se non si parte dai molti fallimenti di cui stiamo pagando, tutti insieme, il prezzo. Il primo è quello, generale, dell’Italia, intesa come economia assistita dalla spesa pubblica (improduttiva), come società (fallimento delle elite e più in generale della borghesia) e come sistema politico-istituzionale (la Seconda Repubblica). Il secondo, più specifico, è il default del federalismo, cioè del mantra più ripetuto negli due decenni, e cioè che la soluzione dei nostri problemi sarebbe consistita nello svuotare lo Stato centrale decentrandone i poteri in una iper ramificata struttura di amministrazioni locali. Il terzo è un fallimento planetario – ma che in Italia ha trovato la sua massima espressione, per via delle nostre contraddizioni – ed è quello del turbo-liberismo, cioè la (sana) cultura liberale del mercato ridotta a ideologia (si allo Stato minimo, no alla politica industriale) e messa al servizio della delegittimazione della politica e delle istituzioni. Noi, in particolare, siamo riusciti nell’impossibile impresa di predicare il liberismo più sfrenato e di praticare il collettivismo più becero. Abbiamo costruito i mostri del socialismo asociale, dello statalismo antistatale e del satanismo fiscale. Ma lo abbiamo fatto – e la sinistra più di altri, dovendosi purificare per essere stata comunista fino alla caduta del Muro – negando la necessità di investimenti pubblici e la legittimità di scelte di politica industriale.

Allora, è solo partendo da questo tragico consuntivo che si può valutare la “ropture” di Renzi. E appare assolutamente indispensabile. Forse potrà non essere sufficiente, e certamente lui finora non ha mostrato la necessaria capacità di tradurla gestionalmente e calarla nell’amministrazione, né la sua azione politica (molto politicista) è innestata su un solido impianto teorico e programmatico. Ma tutto questo non toglie nulla al fatto che “rompere con il passato” sia un’esigenza assoluta e improrogabile. Nello stesso tempo, è evidente che se fin d’ora si riesce a dare un po’ di ordine concettuale al pensiero ricostruttivo, tanto di guadagnato. Da parte nostra, offriamo alla riflessione quella che in questi anni abbiamo chiamato la ricetta “liberal-keynesiana”, chiarendo agli scettici che le due definizioni non sono in contraddizione. Perché, da un lato, la componente “liberal” significa avere l’obiettivo di sconfiggere quella modalità burocratica che rende il mercato e l’economia italiana assolutamente arretrati, tagliando i viveri all’assistenzialismo, che genera incapacità a competere e costi economici e costi sociali alti, per restituire ossigeno a quella parte, purtroppo minoritaria dell’economia che ha fatto numeri straordinari nelle esportazioni. Ma, dall’altro lato, è pacifico quanto siano necessari tanto gli investimenti pubblici – che nessun “pensiero unico” cancella, considerato che non si è mai vista una ripresa per decreto o solo grazie ai consumi – quanto la valenza strategica della politica industriale, visto che abbiamo l’assoluta necessità di ricostruire un capitalismo italiano frantumato. Più Stato e più mercato, è dunque la ricetta giusta – che poi sia la “terza via” di vecchia memoria o di nuovo conio, poco importa – all’interno di un progetto che torna a rivalutare lo Stato centrale, anche in funzione di una progressiva cessione di sovranità in sede europea che speriamo si metta in moto al più presto (Draghi docet), e asciuga il decentramento improduttivo. Si tratta poi di definire, dentro questo schema, quale ruolo si debba assegnare alle rappresentanze degli interessi e che modalità sia più utile per mediarli in chiave di interesse generale. Qui la fase destruens renziana prevede necessariamente un forte tasso di disintermediazione. Ma non c’è dubbio che il ponte diretto gente-leader produce solo alti livelli di populismo e amplifica le pulsioni di uomini e soluzioni forti, da sempre presenti nella società italiana e da cui bisogna rifuggire. Quindi occorre lavorare alla ridefinizione della politica e delle rappresentanze. Leggetevi il nuovo rapporto Censis e troverete qualche prima risposta.

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