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Quel che dice la finanziaria

La manovra e i mercati

RENZI, TANTI NEMICI TANTO ONORE MA RICORDATI CHE I MERCATI SONO UN CECCHINO IMPLACABILE SE LA MANOVRA È TROPPO DEBOLE

19 ottobre 2014

Se c’era bisogno di una conferma, lo scontro con le Regioni – per molti versi dentro il Pd – che Renzi ha provocato con la manovra finanziaria ci dice qual è la tecnica con cui il “rottamatore” fa politica: cercarsi un nemico, avendo cura che quella scelta gli procuri consenso, provocarlo e puntarlo fino a metterlo al tappeto. È la tattica di “un nemico al giorno toglie i problemi di torno”, un cavallo di battaglia di cui è maestro. Finora il gioco ha funzionato: gli italiani sono stanchi di tutto e di tutti – anche se mancano di farsi un esame di coscienza, perché la classe dirigente è sempre espressione della qualità complessiva di un paese – e vedere uno che assesta schiaffoni, anche solo verbali, senza alcun timore reverenziale, provoca loro piacere. E questo spiega il motivo per cui la popolarità di Renzi – che pure poteva essere scalfita dallo scarto evidente tra quanto ha detto e quanto ha concretamente fatto da quando ha messo piede a palazzo Chigi – non solo ha resistito, ma è addirittura aumentata.

Renzi, poi, è particolarmente abile in questa tecnica di comunicazione politica: non la mette mai sul personale (contrariamente a Berlusconi, che divideva in pro e contro lui), in modo da risultare disinteressato; cambia continuamente bersaglio, inventandosi un nemico al giorno, per moltiplicare le occasioni di consenso, pescando in ambienti sempre diversi; cerca totem su cui accanirsi (articolo 18, stipendi e pensioni d’oro, salotti buoni e poteri forti), cosa che gli consente di apparire coraggioso e decisionista, qualità che vanno per la maggiore dopo la lunga stagione delle “mezze calzette”. Angelo Panebianco l’ha messa giù più aulicamente: abbatte tabù culturali, specie a sinistra. E attribuisce a questa funzione di “distruzione creativa” una tale importanza, da perdonare a Renzi tutte le pecche che mostra da primo ministro. Noi siamo forse meno generosi, ma la sostanza non cambia: il tritacarne ci vuole.

Tuttavia, questa modalità ha due evidenti difetti. Il primo è che rischia di rappresentare per chi la pratica una sorta di droga di cui è facile diventare dipendenti. In altre parole, induce al populismo, e dosi massicce e crescenti di quest’ultimo sono nemiche del “buon governo”. Il secondo è che esclude il pareggio tra i risultati della partita: o vinci o perdi, senza mezze misure. E questo significa che la volta che sbagli nemico è la fine. Stiamo parlando di un pericolo concreto, che si è materializzato proprio in queste ore. No, non stiamo parlando del “vaffa” che Renzi si è scambiato con le Regioni, e neppure dello scontro che si potrebbe profilare con la Commissione Europea se dovesse sanzionarci per non aver rispettato i parametri di bilancio uno dei suoi cavalli di battaglia. Il vero pericolo viene da un nemico, impalpabile e nello stesso concretissimo, che non conviene mai sfidare: i mercati finanziari. La caduta di Berlusconi nel novembre 2011 è lì a ricordarlo.

Sia chiaro, le Borse non sono crollate negli ultimi giorni (solo) per colpa del governo di Roma, né gli spread sono schizzati all’insù (solo) dopo aver visto la manovra di Renzi. Ma una cosa è sicura: quel clima positivo verso l’Italia che si era creato qualche mese fa – e sulla cui durata ci eravamo permessi, in perfetta solitudine, di dubitare – è completamente cambiato. E non sarà raccontando che questa manovra è destinata ad entrare nei libri di scuola a far cambiare opinione a chi sta nuovamente valutando se scommettere sulla (non) tenuta dei debiti sovrani dei paesi europei più deboli, dalla Grecia all’Italia, e dell’eurosistema nel suo insieme. E non perché sarà giudicata sbagliata o eccessiva, come l’hanno già ribattezzata i conservatori italici, ma perché impari rispetto alla dimensione epocale dei problemi che abbiamo di fronte. Sappiamo che così dicendo ci esponiamo alla facile critica del “benaltrismo”, ma sono le cose che abbiamo predicato in questi anni, in tempi non sospetti, a consentirci di non badare a questa eventualità. Diciamo da anni, ancor prima della recessione che dal 2008 ad oggi ci ha mangiato 10 punti di pil e s’è divorata un quarto della capacità produttiva del nostro manifatturiero, che l’Italia è precipitata in un declino tale che per uscirne occorrono interventi straordinari, un vero e proprio “piano Marshall” di ricostruzione e rinascita.

Per esempio, è inutile sfidare l’Europa e i suoi vincoli per fare qualche miliardo di deficit in più se poi quella maggiore esposizione non produce pil perché è insufficiente e mal utilizzata, cioè non induce nuovi investimenti, che sono l’unica leva che può risollevare la crescita. Non si può sentire il ministro dell’Economia giustificare il calo degli investimenti pubblici con la coperta corta del bilancio – dall’inizio della crisi la spesa corrente è rimasta sostanzialmente invariata mentre quella in conto capitale è crollata del 38% – quando invece sarebbe logico che lui stesso portasse in sede europea la necessità di inserire tra i parametri una “golden rule minima” che obblighi a mantenere una quota inderogabile di spesa in conto capitale in percentuale su quella complessiva (almeno il 12-15%, visto oggi la nostra è intorno all’8%), aggiungendo che per ogni aumento della quota si potrebbe concedere una deroga progressiva sul limite del deficit al 3% del pil.

La nostra non è una bocciatura della manovra che Luca Ricolfi ha efficacemente definito espressione di un “keynesismo debole”, anche perché è impossibile da giudicare una legge se manca il testo (a proposito, sarebbe ora di smettere di usare le slide al posto dei documenti ufficiali). È, semmai, un invito ad alzare la posta. Come? Proponendo all’Europa, e facendo sapere ai mercati, le seguenti due cose. Primo: che l’Italia ha intenzione di sforare sul deficit, anche molto di più degli 11 miliardi previsti dalla manovra, non perché non voglia pagare il prezzo politico di tagli e riforme impopolari, ma perché per rilanciare l’economia ha un piano – tra riduzione massiccia dell’imposizione fiscale sulle imprese e investimenti pubblici – a sostegno del quale servono ingenti risorse.

Secondo: che compenserà queste minori entrate e maggiori uscite con un massiccio intervento di riduzione una tantum del debito pubblico (e quindi anche degli oneri finanziari, circa 80 miliardi nel 2014, sul debito stesso). Sia con alcune riforme capaci di ridurre in modo strutturale il perimetro della spesa pubblica, a cominciare da una drastica semplificazione del decentramento amministrativo e dalla sanità riportata in capo allo Stato centrale, sia con un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico.

Una manovra di portata epocale – questa sì – che avrebbe il duplice effetto di ridare la credibilità perduta al Paese e alle sue istituzioni in sede europea, e di calmierare i mercati togliendo loro dalle mani gli strumenti della speculazione finanziaria contro i nostri titoli del debito e contro l’euro. E che, last but not least, consentirebbe meglio di ogni altra cosa di tenere lontana la troika, il cui spettro è tornato in queste ore ad aleggiare su palazzo Chigi.

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