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L'editoriale di TerzaRepubblica

La doppia partita di Renzi

LA DOPPIA PARTITA DI RENZI: SE VINCE PRENDE TUTTO, SE PERDE VA A CASA

29 settembre 2014

Renzi sta giocando una doppia partita ad alto rischio. La prima è politica, la seconda di potere. Intrecciate tra loro, sono entrambe decisive, tanto per lui quanto per noi tutti. Proviamo dunque a capirne i termini e i possibili esiti.

Quella politica ha come obiettivo, comprensibilmente, il consolidamento della sua leadership nel Paese. Per farlo, Renzi ha bisogno di confermare e accrescere il consenso popolare e trasformarlo in un gruppo parlamentare di sua fiducia. Al più presto, prima che il perdurare della crisi economica eroda la speranza che gli italiani hanno riposto in lui come rinnovatore. E se per raggiungere questo risultato deve spaccare il Pd, non se ne fa un problema, anzi. Dunque, come scriviamo da tempo, il premier vuole le elezioni anticipate a tutti i costi, e per averle è disposto sia ad andarci senza la legge elettorale maggioritaria che aveva fatto studiare, sia a mettere sul conto che i dissidenti del Pd rompano e facciano un nuovo partito alla sua sinistra. E questo spiega, come abbiamo scritto una settimana fa, la forzatura sull’articolo 18, tema su cui nella campagna elettorale per le primarie Renzi aveva detto che non gliene importava un fico secco. Roberto D’Alimonte – che del cosiddetto Italicum è il padre – sostiene che questa scelta non conviene al leader del Pd, perché senza “premio” al Senato rimarrebbe senza maggioranza. Vero. Ma non c’è bisogno di scoprire quel che non esiste – la versione scritta e sottoscritta del patto del Nazareno – per capire ciò che è del tutto evidente. E cioè che Berlusconi avrebbe tutto l’interesse a supportare Renzi (come peraltro sta già facendo ora). Perche votando con la legge riveniente dall’intervento della Consulta, a base proporzionale anche se con lo sbarramento, ognuno andrebbe per conto suo per poi fare alleanze in parlamento dopo il voto. Così Ncd e Forza Italia tornerebbero ad allearsi elettoralmente per superare gli sbarramenti e poi entrerebbero in maggioranza, tanto più se nel frattempo l’ala sinistra del Pd fosse uscita raccattando quel che rimane di Sel e lista Tsipras. Renzi avrebbe il controllo assoluto del parlamento, Berlusconi si sentirebbe garantito e potrebbe piazzare uomini suoi in alcuni posti chiave. Entrambi, insieme, potrebbero affrontare la successione di Napolitano sicuri di poterla pilotare senza correre pericoli. Ma è proprio dal Quirinale che potrebbe arrivare lo stop decisivo a questo disegno: se il presidente si dimettesse all’inizio dell’anno prossimo, taglierebbe le gambe alle elezioni anticipate e costringerebbe i due del Nazareno a risolvere il rebus della nomina del nuovo inquilino del Quirinale nella palude melmosa di questo parlamento. Userà l’arma nucleare, Napolitano? Difficile dirlo. Molto dipenderà dal grado di inevitabilità dello scioglimento delle camere. In altre parole: se Renzi costringerà i suoi nemici dentro il Pd ad alzare il tiro contro di lui, potrà dire di fronte al Paese che le elezioni sono inevitabili e Napolitano dovrà prenderne atto; altrimenti, in un modo o nell’altro le urne gli saranno precluse.

È per questo che Renzi – e qui siamo alla seconda partita che il premier sta giocando – sta ingaggiando un braccio di ferro con i cosiddetti “poteri forti”, intesi sia come le comari dell’ex salotto buono del capitalismo italiano, sia come chi comanda davvero in Europa. C’è anche Draghi tra questi? Se è vero un pettegolezzo che circola a Roma come in Germania, sì. Pare che nella famosa visita che Renzi gli ha fatto questa estate in Umbria, il presidente della Bce abbia evocato la “troika” (che poi tale non è più perché ormai ha perso per strada il Fondo Monetario), descrivendone l’intervento come un aiuto di cui il primo ad avvantaggiarsi sarebbe stato il governo, e che il premier sia andato su tutte le furie, replicando con un gladiatorio “mai e poi mai, dovrete passare sul mio cadavere”. L’episodio, verosimile se non del tutto vero, aiuta, molto più di tante dietrologie correnti, a capire il dipanarsi della trama del film cui stiamo assistendo, e che potremmo titolare “Renzi contro il resto del mondo”. Specie se si tralascia per un momento il gioco più diffuso del momento, l’esegesi del fondo di De Bortoli sul Corriere – in cui confluiscono troppi elementi di carattere personale perché aiuti a “leggere” i rapporti di Renzi con “i poteri”, nazionali e non – e si guarda con attenzione, invece, quanto scrive Wolfgang Munchau, che sul Financial Times è firma che riflette il pensiero dell’asse Francoforte-Berlino, molto più solida di quanto certa pubblicistica provinciale nostrana descriva. La tesi è lapidaria: oggi per l’Europa la minaccia più grande si chiama Italia, che ha una situazione economica talmente insostenibile che se la crescita non dovesse ripartire andrà verso il default per debito eccessivo, con l’uscita dall’eurozona e la fine dell’euro stesso. Da qui la pressione che Draghi ha esercitato, anche per conto della Merkel, su Renzi: prima con le buone (il discorso vis a vis), poi con le cattive (i messaggi mediatici). Naturalmente si può sostenere che trattasi di pressioni indebite – ma in questo caso si dimentica che a Draghi viene continuamente chiesto di andare oltre il confine delle sue responsabilità formali, e che comunque se siamo ancora vivi lo si deve a lui – così come si può ricorrere alla dietrologia da quattro soldi sulle sue presunte ambizioni per palazzo Chigi (escluderei) o per il Quirinale (già più plausibile) per evocare “trame occulte”. Sta di fatto che i “poteri”, magistratura in primis, hanno sentito odor di scontro, e hanno fatto due più due: se la Bce e la Germania vogliono commissariare Renzi o addirittura farlo fuori, sarà bene schierarsi subito dalla parte del probabile vincitore. Reazione che si potrebbe velocemente archiviare come velleitaria, visto che Renzi il consenso ce l’ha e, finora, neppure il duo recessione-deflazione l’ha eroso. Se non fosse, però, che le cose stanno proprio come dice Munchau: o il governo trova la chiave della ripresa, o l’Italia si schianta, e con lei l’eurosistema.

Ma qui scatta la contraddizione a cui siamo impigliati: Renzi non ha certo la responsabilità di quel disastro chiamato Seconda Repubblica, a fa bene a diffidare della classe dirigente (oltre che del ceto politico) che lo ha prodotto. Ma nello stesso tempo mostra limiti evidenti nell’affrontare i problemi del Paese, o meglio nel tradurre in atti di governo – che non sono solo le leggi approvate – le buone e coraggiose intenzioni che abilmente mette in vetrina. Inoltre, la scelta di affidarsi alle sue indubbie capacità mediatiche per avere un rapporto diretto con i cittadini-elettori saltando i rapporti con qualsivoglia rappresentanza degli interessi – modello “Berlusconi + Marchionne” – e la strategia “tutti nemici, tranne il popolo” che ha adottato, fanno sì che scivoli con facilità nel populismo, il che non aiuta ad affrontare con la giusta ampiezza programmatica gli intricatissimi nodi del declino italiano. Viceversa, chi imputa a Renzi di “parlare e non fare” o di essere capace solo di “rottamare e non costruire”, pur avendo non poche frecce al proprio arco, nella stragrande maggioranza dei casi non ha alcuna credibilità, avendo contribuito in modo diretto e significativo al disastro. Inoltre, chi intende mettere Renzi sul banco degli imputati non ha uno straccio di idea di come sostituirlo – né uomini né politiche all’altezza della sfida – e non vuole farsi una ragione del fatto che gli italiani indietro non vogliono più tornare, giusto o sbagliato che sia.

Ecco, è questo “gatto che si morde la coda” il problema del potere, politico e non, in Italia oggi. Uscirne non è facile. Ma il modo sicuro per non riuscirci è far finta che le cose stiano diversamente.

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