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Renzi e la ripresa che non c'è

Il deficit programmatico del governo è evidente, si faccia un manifesto delle scelte davvero rivoluzionarie di cui il nostro Paese ha bisogno

30 agosto 2014

Finite le ferie estive senza che ci sia stata l’estate, e per molti neppure le vacanze, riprendiamo il nostro settimanale appuntamento del sabato con le riflessioni – all’insegna di un sano realismo che ama guardare in faccia la realtà delle cose e non lascia spazio né all’ottimismo né al pessimismo – di TerzaRepubblica.

Prima, però, vogliamo ricordare un amico e un uomo di Stato come pochi ce ne sono ormai, che è improvvisamente e prematuramente scomparso durante l’agosto: il presidente emerito della Corte Costituzionale, Pier Alberto Capotosti. Nato a San Benedetto del Tronto il 1° marzo del 1942, giurista valente, già vicepresidente del Csm, nel 2055 era stato nominato presidente della Corte costituzionale. Ma Capotosti era – soprattutto, vorremmo dire noi, senza per questo far torto alla sua figura professionale – un uomo delle istituzioni che si è sempre battuto, con la forza delle idee e grazie ad un bagaglio culturale di grandissimo spessore, per la riaffermazione dello Stato di diritto, per la modernizzazione del sistema Italia, per l’affermazione della primazia della politica dando ad essa una dimensione progettuale ed etica che è andata perdendo negli ultimi decenni. Un riformista prudente, che predicava il cambiamento della sostanza e rifuggiva da quello, tutto mediatico, della forma. Con noi condivideva la necessità di dare al Paese un sistema politico e istituzionale coerente e funzionale, in linea con le migliori esperienze europee. Prediligeva, come noi, il “sistema tedesco”, inteso come legge elettorale, organizzazione dello Stato centrale e del decentramento amministrativo, forma di governo (il cancellierato). Come noi attribuiva alla coesione politica, e dunque a forme di governo come le “grandi coalizioni”, un valore non meno importante a quello dell’alternanza. Come noi avrebbe voluto una grande riforma costituzionale, anche se nutriva qualche preoccupazione che lo strumento da noi indicato, l’Assemblea Costituente, potesse essere troppo ardimentoso. Come noi odiava il dilettantismo politico, il pressapochismo amministrativo, il conformismo culturale, il leaderismo populista. È morto a Cortina, dove spesso in passato aveva ingaggiato, nei mitici panel di “Cortina Incontra”, delle interessantissime discussioni con i più attrezzati politologi italiani. Ci mancherà.

Con il nostro amico Capotosti avevamo iniziato mesi fa un confronto su Renzi e il suo governo. “È destinato a durare, dobbiamo farci i conti”, ci diceva. Saggiamente, ci invitava a non avere prevenzioni. Nello stesso tempo non mancava di esporre, con crudezza, critiche e contrappunti, seppure sempre esposti con moderazione e spirito costruttivo. Chissà cosa direbbe oggi, Capotosti, di fronte a quello che si profila – alla ripresa di settembre – come un vero e proprio voltafaccia nei confronti di un premier che di colpo pare essere passato da “rottamatore volitivo, portatore di una sana ventata di aria fresca” a “giovane presuntuoso che chiacchiera e non conclude”. Proprio sul fronte mediatico, suo punto di forza, Renzi sembra perdere clamorosamente terreno. Nei media internazionali – dalla copertina irriguardosa dell’Economist alle battute pesanti di Le Monde e Financial Times sulla Mogherini – come sui giornali italiani, in cui spuntano cecchini laddove fino a ieri prevalevano i lecchini.

Noi vorremmo chiamarci fuori da questo tiro al bersaglio. Non perché non manchino le munizioni. Renzi ha minimizzato e continua a sottovalutare la portata epocale della crisi economica che stiamo vivendo – ancora ieri ha preferito giocare con il cono gelato anziché ammettere che il combinato di prolungata recessione, deflazione (la prima volta dopo 50 anni) e crescente disoccupazione ci consegna un quadro non soltanto congiunturale di grave pericolo – e continua a sfornare o idee ambiziose ma con scarso ancoraggio operativo o puntuali azioni di governo giuste ma non capaci di andare oltre la linea dell’ordinaria amministrazione. Inoltre immagina percorsi impraticabili e sponde improbabili. Come capeggiare un’aggregazione mediterranea contro la Germania, con il risultato che Hollande licenzia i ministri più ostili alla politica tedesca, a costo di spaccare il suo partito, e la Merkel e Rajoy si giurano amore imperituro e mostrano i denti ai, veri o presunti, nemici dell’austerità. Alla faccia di chi immaginava che nell’eurosistema in salsa berlinese si potesse fare a meno della Germania o anche solo mettersi di traverso. O come fantasticare su ipotetici patti con Draghi, nella speranza che sia la Bce e toglierci dai guai. Anche qui, non ci voleva certo il ruvido ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, per capire che sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore c’è un clamoroso misunderstanding. Anzi, Draghi ha detto che dopo averlo fatto negli ultimi due anni, la Bce non è più disposta a “comprare tempo” a favore dei governi europei senza che questi facciano i compiti a casa delle riforme strutturali. Un messaggio inequivocabile – su cui quasi certamente il presidente della Bce aveva acquisito preventivamente il consenso dei tedeschi – che ci dice che la Bce non può andare oltre, anche volendo. La diga eretta da Francoforte è stata preziosa, tagliando le gambe agli spread e alla speculazione che scommetteva contro l’euro, ma non ha risolto, né poteva, alcun problema di fondo che compone il puzzle delle euro-contraddizioni. Ha solo aperto un ombrello protettivo sulla testa dei governi, di cui non ha approfittato né l’eurosistema nel suo insieme – per colpa dei diversi ma convergenti retaggi tedeschi e francesi – né l’Italia, pur avendo nel frattempo sperimentato tre governi (o forse proprio per questo).

Insomma, nessun aiutino in vista. Perché non sta nelle cose, e perché comunque non ce lo meriteremmo. Si dice: ma avremo – ormai è pressoché certo – la guida della politica estera europea. Peccato che sia materia di piena sovranità nazionale e che dunque quel ruolo sia solo formale. Inoltre, per quel poco che conta, l’incarico arriva proprio mentre lo scenario geo-politico, con gli annessi e connessi energetici, si sta facendo maledettamente complicato. Anche qui, vietato scambiare lucciole per le lanterne: a decidere se fare o meno accordi con Putin, e di che tenore, e a parlarne con gli americani, sarà la Merkel – che deve decidere se mantenere o far saltare la sempreverde ostpolitik tedesca (niente nemici a oriente) – non la Mogherini (come ieri non era la Ashton). Così, giusto per sapere con che carte si gioca.

Allora, pollice verso a Renzi? E a che pro? Al governo c’è lui, alternative ce ne dovranno essere ma costruirle richiede tempo, e il Paese non ha bisogno di chi gioca al “tanto peggio, tanto meglio”. Piuttosto, visto che è evidente il deficit programmatico del governo, si faccia un bel cartello di tutti quelli che non hanno alcun interesse politico a buttar giù Renzi dalla torre e che invece vorrebbero fargli fare scelte più coraggiose e impegnative. Ci rivolgiamo a Squinzi, a Bonanni e Angeletti, a una parte della stampa, agli editorialisti e agli economisti più avveduti, a quella parte della società civile che ha guardato alla novità Renzi con speranza e che ora teme la delusione, se già non la prova: scriviamo insieme un manifesto delle scelte davvero rivoluzionarie di cui il nostro Paese ha bisogno. TerzaRepubblica apre la sua campagna d’autunno su questo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.