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L'editoriale di TerzaRepubblica

Europee senza Europa

TRAGICO ERRORE FARE ELEZIONI UE SENZA PARLARE DI EUROPA E DEL RISCHIO GUERRA MA OCCUPANDOCI SOLO DI ITALIA

di Enrico Cisnetto - 13 maggio 2024

Ipogogia. Demacrisia. No, non sono due nuove parole che si aggiungono al nostro ricco vocabolario, ma la semplice crasi che mi sono permesso di fare di “ipocrisia” e “demagogia”, nel tentativo di rendere quanto più percepibile possibile l’inscindibile fusione dei due atteggiamenti che caratterizzano la classe politica italiana nella campagna elettorale per le elezioni europee. Mancano 4 settimane esatte al voto, ma in una spasmodica rincorsa al consenso che sciaguratamente si aperta da mesi – o forse sarebbe meglio dire che non si è mai fermata, in continuità con i vari appuntamenti amministrativi che si sono susseguiti dopo le politiche del 2022 – ma di Europa si è parlato poco e niente, e quel poco in modo fuorviante. Non mi riferisco soltanto all’evidente inadeguatezza delle piattaforme politiche, tutte in chiave nazionale, e dei candidati, scelti nel migliore dei casi per le loro qualità mediatiche, vere o presunte, e non per il loro profilo politico-programmatico o anche solo per le competenze personali. Né mi ha stupito la sgradevole forzatura – l’ennesima – che si è voluto fare in chiave leaderistica, con la presentazione del presidente del Consiglio e di alcuni segretari di partito che non andranno comunque a Bruxelles, e di personalizzazione dei simboli elettorali, persino, in un caso, con il nome di chi non c’è più. No, la cosa che più avvilisce e preoccupa è che nel dibattito pubblico non c’è – appunto per ipocrisia e demagogia della classe politica, cui si aggiunge la complicità dei media – il benché minimo riferimento all’Europa del futuro, inteso non come ideale traguardo da raggiungere in un tempo remoto, ma come cogente necessità al cospetto dei cambiamenti epocali in atto nel mondo e ancor più come priorità assoluta rispetto alle risposte che occorre dare alla più grave delle sciagure che ci possono capire, il ritorno della guerra nemmeno 80 anni dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale.

È incredibile come, seguendo il confronto politico, sfogliando i giornali, guardando i talk show televisivi (per chi supera il senso di nausea), rovistando nella rete e nei social, non si trovi una riflessione sulla nostra condizione di paese e continente in stato di pre-guerra, nonostante che i disegni di Putin che vanno ben oltre l’Ucraina siano chiari da due anni e dal 7 ottobre scorso sia altrettanto chiaro che quanto accade nel Medio Oriente non solo produce conseguenze dirette (vedi, per esempio, la crisi commerciale innescata dagli attacchi Houthi alle navi nel Mar Rosso) ma si salda pericolosamente con il fronte del conflitto scatenato dalla Russia per via dei legami del Cremlino con l’Iran. Solo paccottiglia legata alla discussione, tutta ideologica, sul pacifismo, e il solito stucchevole scambio di accuse destra-sinistra intorno alle manifestazioni, studentesche e non, declinate in chiave antisionista e antisemita. Niente di serio sui pericoli che corriamo, sulla nostra totale mancanza di deterrenza militare, sul ritardo europeo nel dotarsi di un sistema di difesa comune e sul ruolo di crescente protagonismo che l’Europa dovrebbe sbrigarsi ad assumere nella Nato, prima che l’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca ci lasci in braghe di tela.

Prendete la scarsa attenzione italiana dedicata alle recenti “provocazioni” di Macron, e per quel poco la reazione ottusa messa in scena. Ora, si può avere il giudizio che si crede sul presidente francese (chi vuole approfondire può vedersi la War Room di giovedì 9 maggio con Andrea Bonanni, Jean-Pierre Darnis e Massimo Nava,QUI IL LINK), ma quando dice che “nel caso Kiev dovesse cedere, non si esclude l’invio di soldati sul campo”, mette l’Europa, la classi dirigenti ma anche i popoli, di fronte alla necessaria consapevolezza che il momento è churchillianamente grave e che ciascuno deve assumersi la responsabilità di guardare in faccia la realtà. Quell’Europa che “potrebbe morire”, come ha detto Macron parlando alla Sorbona, se non facesse fino in fondo il proprio dovere. Eppure, o si fischietta facendo spallucce come se la cosa non ci riguardasse, o si sproloquia, a destra e a manca, sulla bandiera bianca che Zelensky dovrebbe alzare e sull’opportunità di chiudere i rubinetti degli aiuti militari e finanziari all’Ucraina. Sono poche le voci che si alzano a bucare il muro dell’ipogogia o demacrisia che dir si voglia. “Macron dice qualcosa che sappiamo ma che viene continuamente rimosso”, dice lapidario l’esperto di geopolitica Vittorio Emanuele Parsi. “Il presidente francese non è un estremista, e se a poche settimane dalle elezioni spende parole che certo non gioveranno alla sua popolarità, vuol dire che la situazione politico-militare si è molto aggravata”, scrive Giorgio La Malfa, aggiungendo che prendere le distanze da Macron, anche solo ignorandolo, “rischia di mandare a Putin il messaggio che tutto sommato l’Occidente è pronto ad accettare il fatto che la Russia non si fermi”.

Su tutto questo dovrebbe infiammarsi la campagna elettorale, non – con tutto il rispetto – sulla censura alle parole (invero povere) di Scurati, sui fatti pugliesi, siciliani e liguri (che invece richiederebbero una riflessione sull’opportunità di ridimensionare o addirittura abolire le Regioni) piuttosto che sulla carrellata di sciocchezze propinate dai candidati improbabili che i partiti hanno messo in lista pensando che gli procurino chissà quale messe di voti. Vedremo gli argomenti che il duo Giorgia-Elly userà nel faccia a faccia televisivo che dopo lungo tormento è stato fissato per il 23 maggio (ma proprio il giorno del mio compleanno dovevano scegliere, mannaggia la miseria…!), ma sono pronto a scommettere che sarà il festival degli slogan triti e ritriti. Le premesse ci sono tutte. Meloni che personalizza il voto candidandosi e tirando fuori la trovata populista dello “scrivete Giorgia sulla scheda”, in attesa di un altro referendum sulla sua leadership una volta che fosse passata la riforma costituzionale del cosiddetto premierato (ma la parabola Renzi non insegna niente?), sulla quale si può pensare quel che si vuole (e io penso che basterebbe osservare la crisi dei governatori regionali per capire che non è l’elezione diretta di un premier lo strumento per dare stabilità politica e governabilità all’Italia), ma certo tiene lontano la testa del Paese dai problemi geopolitici ben più cogenti che incombono. Schlein che, mentre insegue Landini sul jobs act dando un calcio nel sedere al riformismo Pd, disdegna Gentiloni sul nuovo patto di stabilità Ue come una sovranista qualunque, confonde le idee agli elettori candidando pacifisti duri e puri (Tarquinio) e filo putiniani (Strada) insieme con euro-atlantisti di sana e robusta costituzione, e candidandosi finisce per personalizzare l’unico partito plurale (se era per lei metteva anche Elly sulla scheda), sceglie di impostare tutta la sua politica (si fa per dire) sull’evocazione del pericolo neo-fascista proprio mentre il pericolo Putin bussa drammaticamente alla porta. 

Il paradosso delle elezioni europee senza parlare di Europa si evince anche dal silenzio codardo con cui i partiti italiani, con qualche meritevole eccezione, hanno accolto le prime indicazioni che vengono dai due italiani (pensa se fossero stati di altri paesi), Draghi e Letta, incaricati dalla Commissione Ue uscente di suggerire come il Vecchio Continente può affrontare le sfide immani che lo attendono. Draghi ha messo i piedi nel piatto, chiarendo che senza una forte accelerazione del processo di integrazione, l’Europa non sarà in grado di difendersi militarmente e di pesare politicamente e diplomaticamente nello scenario planetario scosso dalla messa in discussione del ruolo dell’Occidente, non sarà in grado di far crescere l’economica affrontando con efficacia il tema dell’indipendenza energetica e del venir meno delle vecchie condizioni del decentramento produttivo dove i costi sono (erano) più bassi per poi esportare sui mercati di consumo emergenti, e infine non sarà capace di affrontare le sfide poste dal massiccio uso dell’intelligenza artificiale e dalla necessità dei cambiamenti a tutela dell’ambiente. Letta, muovendosi sempre nel solco della costruzione degli Stati Uniti d’Europa, ha delineato una serie di proposte ambiziose destinate a trasformare il panorama economico e finanziario continentale – integrazione dei mercati della finanza, dell’energia e delle telecomunicazioni, istituzione di una Unione dei risparmi e degli investimenti, implementazione di un nuovo sistema europeo di aiuti di Stato – con l’obiettivo di attrezzarci per gareggiare con le due super potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, senza aver perso in partenza come sarebbe certo se dopo le elezioni l’Europa rimanesse quella attuale degli Stati senza un governo federale.

Ma anche qui, il buio è pesto. I sovranisti sono tali nei fatti ma fanno finta di non esserlo, nascondendosi dietro lo slogan truffaldino del “vogliamo cambiare l’Europa” senza minimamente dire come, e dunque non propongono alcun modello, limitandosi a far leva sulla paura ancestrale dello straniero che vuole comandare a casa nostra. Gli europeisti, a loro volta, si dividono tra i mosci, che per paura di perdere consenso tra coloro che sono inclini a farsi abbindolare dal populismo dell’Europa matrigna, si limitano ad una generica riaffermazione del loro spirito europeista ma poi si astengono sul patto di stabilità o sul Mes, e i convinti, che purtroppo rappresentano una minoranza e per di più trovano il modo di dividersi per ragioni nazionali o, peggio, personali.

È dunque in questo scenario poco confortante che ci accingiamo a vivere questo ultimo (ma in un paese normale avrebbe dovuto essere l’unico) mese di campagna elettorale. Il consiglio che posso darvi, cari lettori, è quello di ignorare, senza riserve e sensi di colpa, i nove decimi del dibattito che passa il convento politico-mediatico, di guardarvi le nostre istruttive War Room (scusate la presunzione, ma quando ci vuole, ci vuole), e di riflettere su come riuscire a superare dentro di voi la comprensibilissima tendenza a restare a casa, il 9 giugno, individuando un voto utile per l’Europa e in assoluto. Prometto che prima del giorno fatidico torniamo a parlarne.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.