ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Sull'Europa ha ragione Draghi

PER VINCERE LE SFIDE EPOCALI CON USA E CINA E RIPARARSI DA PUTIN L'UE DEVE INTEGRARSI E LANCIARE UN PIANO STRAORDINARIO DI INVESTIMENTI

 

 

di Enrico Cisnetto - 09 marzo 2024

Una kermesse elettorale “sana” dura un paio di mesi, tre al massimo. Noi, complici diverse elezioni amministrative che si sono svolte e si stanno svolgendo, siamo in campagna per le europee di giugno 2024 da un anno mezzo, praticamente dal giorno dopo che si è formato il governo Meloni. Sia chiaro, succede anche in altri paesi continentali, ma non in questa maniera così patologica. Se almeno servisse a parlare di Europa potremmo farcene una ragione. Invece, di tutto si parla (si urla) meno che delle cose davvero importanti. Eppure, il nostro continente vive un passaggio fondamentale della sua storia. La fine di Yalta e degli equilibri Est-Ovest della guerra fredda senza che nel frattempo sia stato trovato un nuovo ordine mondiale, ha aperto la strada ad una fase anarchica della geopolitica, in cui l’Europa è sicuramente l’area più debole. Il modello di sviluppo basato sull’energia a basso costo proveniente dalla Russia, sulla delocalizzazione produttiva verso i paesi con il costo del lavoro più contenuto, sulle esportazioni di beni ad alto prezzo e sulla protezione militare americana – che dal 1945 in poi ha dato prosperità e benessere all’Europa, consentendole di creare il sistema di welfare migliore al mondo – è morto e sepolto. Schiacciato anche da disparità demografiche a nostro svantaggio, da un crescente gap tecnologico nei settori che fanno (il digitale) e soprattutto faranno (l’intelligenza artificiale) la differenza, dall’affermarsi sulla scena globale di paesi e aree emergenti molto più “affamate” di sviluppo e progresso di noi, che siamo vecchi e appagati, imprigionati in una scala di valori dove sono scomparsi i doveri e sono rimasti solo i diritti, impigliati in farraginosità burocratiche figlie di una spesa pubblica parassitaria, obnubilati da subculture a-scientifiche o, peggio, anti-scientifiche che ci impediscono di guardare con speranza al progresso e dunque al futuro.

L’Europa, insomma, deve ripensarsi. La campagna elettorale non è certo il momento migliore per dedicarsi ad analisi pensose ed elaborazioni programmatiche, ma la ricerca del consenso andrebbe basata proprio sulla presentazione ai cittadini del risultato di un lavoro di riflessione fatto preventivamente. In mancanza del quale non restano che slogan grondanti demagogia e populismo. E tutto ciò non può avvenire senza che le vecchie culture politiche si ridefiniscano proprio a partire dal compito immane di aprire all’Europa una nuova stagione della sua esistenza, e se le forze nuove che nascono non abbiano questo ambizioso obiettivo ma si caratterizzino solo come casse di risonanza delle paure, delle inquietudini e delle più o meno giustificate ribellioni che in una fase di transizione epocale inevitabilmente si producono nella società. Per questo è triste e preoccupante dover notare che l’unica sollecitazione fin qui arrivata a cambiare spartito se si vuole suonare una musica diversa viene non dal mondo politico europeo, ma da una figura della tecnocrazia continentale, Mario Draghi.

Non nuovo a evocazioni di grande impatto – dal famoso “whatever it takes” del 2012, che cambiò le sorti della politica economica dell’Europa e fu alla base del salvataggio dell’euro dopo la crisi greca, al discorso su “debito buono” e “debito cattivo” dell’estate 2020 che si può considerare la base culturale del Next Generation Eu – Draghi ha detto chiaramente che in Europa c’è bisogno di investire, attingendo per un terzo dalle risorse pubbliche e due terzi da quelle private, almeno 500 miliardi di euro all’anno, circa l’1,5% del pil, per sostenere la transizione verde e digitale. Voci di spesa cui vanno aggiunte quelli per la difesa e l’industria. È quanto serve per stare al passo con gli Stati Uniti, che hanno lanciato un piano di stimolo dell’economia da 2mila miliardi di dollari per il periodo 2021-2027. E anche con la Cina, che ha fatto del capitalismo di Stato e di quello privato fortemente sorvegliato dallo Stato, cioè un dirigismo sussidiato in modo massiccio, la propria ragion d’essere.

Nella War Room di giovedì 7 marzo (qui il link) ho ragionato con Federico Fubini e gli economisti Carlo Altomonte e Giorgio Barba Navaretti se quella indicata da Draghi sia la strada giusta. Direi che la conclusione è stata un “sì, ma”, laddove la condizione posta non riguarda l’entità della spesa – se si considera che la media degli ultimi tre anni post pandemia è stata di circa 2500 miliardi annui di investimenti complessivi in Europa, stiamo parlando del 20% di quel che già si spende – quanto nel fatto che gli investimenti invocati dall’ex presidente della Bce siano accompagnati, se non addirittura preceduti, da due processi di integrazione. Uno dei mercati, che significa piani industriali finalizzati al presidio delle nuove frontiere dello sviluppo – si pensi al digitale, all’intelligenza artificiale, a settori come l’aerospazio, e così via – e al recupero della competitività perduta. E l’altro delle politiche, che vuol dire una riforma della governance fiscale europea per impegnare tutti i paesi a piani settennali di riforme e investimenti, e di crescita della spesa nominale, da negoziare con la Commissioni Ue (come per il Pnrr). Resta poi da decidere se il nuovo debito dovrà essere federale, in un contesto di mercato unico dei capitali, o continuare ad essere la somma di debiti nazionali. Ovvio che la prima scelta sia preferibile, ma a questo punto tocca chiedersi se tutte queste forme di integrazione – industriale, finanziaria e di bilancio, normativa – siano possibili con l’attuale assetto istituzionale della Comunità europea. Cioè, in altre parole, se non sia indispensabile premettere a tutto questo la creazione degli Stati Uniti d’Europa, sul modello americano, o almeno a qualcosa che gli somigli.

Nell’attesa, temo vana, che la campagna elettorale offra finalmente qualche spunto inducendo l’offerta politica ad articolarsi su questi temi fondamentali e non sulle chiacchiere da bar o sulla difesa di interessi corporativi in cambio di un po’ di consenso – unico modo per invogliare gli elettori a esercitare il loro diritto anziché restare a casa, disgustati – vale la pena di partire da qui anche per affrontare le poche questioni europee che riescono a bucare il muro dell’indifferenza, non fosse altro per ricondurle ad una dimensione meno caricaturale. Mi riferisco, per esempio, alla politica monetaria. Ormai si gioca il derby dei tassi, tra chi li vorrebbe alti perché è percettore di rendimenti dei titoli pubblici e chi li vorrebbe bassi perché ha il mutuo da pagare. Ora, l’autonomia della Bce è sacrosanta, ma sostenere che le politiche dei tassi d’interesse andrebbero basate sulle aspettative di inflazione e non sull’inflazione osservata al momento non solo è lecito, ma opportuno. Così come è bene osservare che la fiammata inflazionistica che ha bruciato un pezzo dei nostri redditi in questi mesi deriva dalla cosiddetta inflazione da offerta, o da costi, che si verifica quando l’aumento dei prezzi dei fattori produttivi fa aumentare anche i prezzi degli altri beni, e non da domanda, che si ha quando sul mercato c’è un eccesso di domanda non sostenuto da un adeguato livello di offerta. Distinzione, questa, che porta a dire che in questo momento il contenimento dell’inflazione si persegue molto più aumentando gli investimenti che non i tassi.

Altra questione cruciale ridotta a discussione da social (una volta si diceva da bar), è quella relativa alle “transizione gemelle”, digitale e green. Complici le semplificazioni negazioniste alla Vannacci, da un lato, e dall’altro le iperboli ideologiche stile Greta Thunberg o Ultima Generazione (i cretini che hanno imbrattato di vernice il palazzo del Senato), abbiamo formato una destra che rifiuta le tecnologie (della serie l’intelligenza artificiale uccide quella naturale) e nega il cambiamento climatico o comunque la sua dipendenza anche dall’azione dell’uomo, e una sinistra che radicalizza il cambiamento senza minimamente porsi il problema delle conseguenze economiche e sociali che il forzare i tempi e i modi delle transizioni produce. Ecco, fare la campagna elettorale esasperando i toni da entrambe le parti, non fa altro che rendere più difficile ciò che è già maledettamente complicato di suo. Faccio un esempio: l’automobile. Porre l’aut-aut o solo elettrico e nel minor tempo possibile, o endotermico tutta la vita, significa perdere la sfida da tutti i lati. Mentre la Cina sta facendo passi da gigante sul piano delle tecnologie (per esempio le batterie) e conquistando enormi fette di mercato sull’auto elettrica, l’Europa balbetta sul piano industriale mentre sposa l’intransigenza sul piano normativo. Si può facilmente pronosticare l’esito della partita. Ed ha ragione Alec Ross, l’economista americano che ora insegna a Bologna ed è tra i maggiori esperti al mondo di economia digitale, quando accusa gli europei di voler fare la parte dell’arbitro che fischia i falli altrui (vedi le sanzioni ai giganti tech) invece di scendere in campo con la propria squadra, affrontando americani e cinesi nelle sfide poste dallo straordinario sviluppo delle tecnologie.

D’altra parte, persino l’integrazione dei sistemi di difesa, e quindi delle imprese che li producono, e la creazione di un esercito europeo comune risentono di un approccio politico maledettamente populista e nazionalista, nonostante che le guerre alle nostre porte – quella di Putin a nord e quella iraniana (sotto varie bandiere) a sud – dovrebbero indurci ad affrettare i processi integrativi. Da un lato le litanie pacifiste (sport in cui l’Italia eccelle) e dall’altro le ottuse chiusure sovraniste (vedi l’intervista che il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha dato al Sole 24 Ore in cui si schiera contro l’utilizzo di denaro pubblico Ue per la difesa), producono uno stallo molto pericoloso, e sarebbe bene che le forze politiche che pretendono di governare l’Europa per i prossimi cinque anni si misurassero su questo punto con grande chiarezza.

Insomma, in Europa siamo di fronte a scelte epocali e il tempo delle indecisioni è scaduto. L’Italia, come peraltro tutti gli altri paesi continentali, non ha né la dimensione né la forza per sottrarsi a questo showdown. Di fronte a questa constatazione, resta un mistero come si possa parlare d’altro e pensare poco e niente. Eppure, questo è ciò che succede quotidianamente in Italia, peraltro in un clima che si fa ogni giorno sempre più avvelenato. Dove fino a ieri tutto sembrava dipendere dalle scelte dei 750mila sardi che, su poco meno di un milione e mezzo di aventi diritto, sono andati la settima scorsa a votare per il presidente della loro Regione, mentre ora pare che gli orientamenti di quanti tra il milione e 200mila abruzzesi in età di voto domenica si recheranno alle urne equivalgano ad una sorte di giudizio universale. Poi dice che siamo provinciali, chioserebbe Totò.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.