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L'editoriale di TerzaRepubblica

Caos post voto

DOPO LA SARDEGNA IL VENTO È PEGGIORATO, NON CAMBIATO E LA TENSIONE GOVERNO-QUIRINALE AUMENTA I RISCHI

di Enrico Cinsetto - 02 marzo 2024

Stiamo scherzando con il fuoco (nemico). Mentre Macron e Scholz spaccano l’Europa, facendo un enorme regalo a Putin, dividendosi sulla ipotesi che un domani dei militari europei (quali? un esercito Ue non esiste, purtroppo) possano affiancare l’esercito ucraino contro la Russia, cioè la seconda maggiore potenza nucleare del mondo, la politica nostrana riesce a trasformare un’elezione regionale in uno psicodramma nazionale e a produrre uno scontro istituzionale, Chigi-Quirinale, senza precedenti. Complimenti vivissimi.

Il voto della Sardegna, che ha eletto la 5stelle Alessandra Todde alla guida della Regione, avrebbe potuto essere e restare un fatto locale – come sarebbe stato opportuno che fosse – se una classe politica nazionale ossessionata dalla continua misurazione del consenso (ci vorrebbe Freud) non lo avesse sciaguratamente trasformato in un evento finalizzato a regolare i conti a Roma, come peraltro avviene in Italia per qualsiasi tipo di elezione, consigli di circoscrizione cittadini compresi. Con la conseguenza di provocare laceranti disillusioni a destra, pericolose illusioni a sinistra e frustrazioni da ansia da prestazione al centro. Con un effetto domino che la politica avrebbe avuto tutto l’interesse a risparmiarsi, se solo disponesse di un briciolo di sale in zucca. E soprattutto di risparmiare al Paese, avendone a cuore le sorti e capendo la gravità dei problemi che incombono sulla testa di tutti noi.

In questo contesto, le tiritere del dopo elezioni – sulla manciata di voti che separa Todde da Truzzu, che sarebbero il segno che in fondo è stato un pareggio; sull’inadeguatezza di quest’ultimo e sulle responsabilità di chi lo ha candidato; sul fatto che non si sia trattato di voti guadagnati per meriti del centrosinistra, che ne prende 45mila in meno del centrodestra, ma per demeriti degli avversari; sullo sgarbo della Meloni a Salvini e sulla vendetta di quest’ultimo grazie al voto disgiunto – lasciano davvero il tempo che trovano. Così come fanno sorridere, per non dire pena, le sussiegose prese di posizione a suon di “loro facevano peggio” o di “non accettiamo lezioni da quelli”, che rivelano il grado di indecenza raggiunto e quindi il livello di gravità della malattia che corrode la nostra democrazia.

Viceversa, sulle elezioni sarde vale la pena di fare le seguenti osservazioni. La prima, preliminare a qualsiasi altra valutazione: si conferma patologico il livello degli astenuti (poco meno del 50%), cosa che rende politicamente fragile, ancorché formalmente legittimo, questo come qualsiasi altro risultato ottenuto in un contesto di forte sfiducia e diffuso disinteresse. Si tratta di un fattore di allarme democratico, di cui bisognerebbe tener conto quando si parla di riforme istituzionali che vanno nella direzione di riservare ad una minoranza poteri che in circostanze sane richiederebbero dosi di consenso popolare ben più massicce. Non per una questione di legittimità, ma di efficacia: governare con un quarto o addirittura un quinto dei voti degli aventi diritto significa nel migliore dei casi non avere nella quotidianità il sostegno della società, e nel peggiore remarle contro. Domanda: se in una elezione di prossimità come quella per la Regione Sardegna, e per di più in un territorio fortemente geloso della propria tradizione isolana, resta a casa la metà dei cittadini, alle europee di giugno quanti andranno a votare? Fare spallucce, e dire che così succede anche altrove – senza tener conto che ogni democrazia fa storia a sé e che ciò che conta è il trend – non è un buon modo per esorcizzare un problema strutturale che riguarda la maturità della nostra democrazia, tantomeno per risolverlo.

La seconda osservazione riguarda il destra-centro, e in particolare le convinzioni maturate dalle forze politiche di maggioranza un anno e mezzo dopo la vittoria elettorale che ha fatto nascere l’attuale governo. Giorgia Meloni ha creduto che la sua storia di underdog arrivata nella “stanza dei bottoni” (forse ignorando che già nel 1962 Pietro Nenni scoprì che il magico luogo dove si materializza l’esercizio del potere non esiste) e il suo profilo da premier decisionista facesse premio su ogni altra considerazione. Ma si è sbagliata. Per due ordini di motivi: primo perché non ha tenuto conto dell’estrema volatilità delle leadership prodotte da questo sistema politico malato, e dopo un anno e mezzo di governo la consunzione è già in atto, inevitabilmente; secondo perché non è possibile tenere insieme una maggioranza divisa su tutto – e in particolare su questioni dirimenti come la collocazione internazionale del Paese, tanto più quando si è di fatto in guerra – senza pagarne il prezzo, ed è presuntuoso pensare di poterlo far pagare solo ad una parte di quella maggioranza (nella fattispecie, la Lega di Salvini). E reagire minimizzando (“in fondo abbiamo perso solo per tremila voti”) o dando la colpa agli altri, non è certo il modo migliore per trarre il giusto insegnamento dalle avversità (come vedremo tra poco parlando del rapporto Meloni-Mattarella). Soprattutto, continuare a negare l’evidenza, e cioè che quella tra Salvini e Meloni non è più – ammesso sia mai stata – una fisiologica concorrenza tra alleati inevitabilmente rivali, ma una patologica guerra tra nemici che fanno finta, senza neppure sforzarsi troppo, di essere amici, sa di presa in giro che gli elettori non perdoneranno ad entrambi. Per carità, non è la prima volta che accade una cosa del genere, e non sarà l’ultima. Ma in questo caso, ciò che colpisce è la differenza di peso politico-elettorale tra i due contendenti, che dovrebbe indurre entrambi, seppure per motivi opposti, ad una maggiore prudenza. Perché Meloni rischia che Salvini, ormai fuori controllo, apra una crisi – bissando la cosiddetta operazione Papeete, cioè quando fece cadere il governo Conte – mentre il capo della Lega a sua volta rischia di essere disarcionato da una fronda interna al partito, ormai in preparazione e che dopo il pesante j’accuse pubblico di Bossi fatica a restare sottotraccia. Con quali conseguenze? In caso di crisi di governo, il Quirinale scioglierebbe senza indugio le camere e convocherebbe elezioni anticipate. Mentre in caso di blitz nella Lega, Salvini non si farà mettere in minoranza, anche a costo di spaccare tutto. E come è facile intuire le due cose non solo non confliggono, ma si tengono e si sommano.

Infine, la terza e ultima osservazione a commento delle elezioni sarde riguarda i “vincitori”. Il cosiddetto centro-sinistra – laddove non si capisce chi sia il centro e perché i 5stelle dovrebbero essere considerati “sinistra” – annuncia trionfante che il “vento è cambiato”, senza capire che l’unico vento che soffia è quello delle illusioni. Non perché l’elezione di Todde debba necessariamente rimanere un caso isolato, e per esempio non possa ripetersi già in Abruzzo tra una settimana, fino anche a generare la (ri)conquista di Palazzo Chigi, ma perché è un inganno immaginare che una siffatta coalizione, “campo largo” o come altro la si voglia chiamare, possa reggere all’urto dei problemi posti dall’onere di governare. Proprio in queste ore a Strasburgo si è consumato l’ennesimo distinguo pentastellato sull’Ucraina: all’Europarlamento sulla risoluzione che impegna l’Europa a fornire armi a Kiev i 5stelle hanno votato contro, mentre i Dem a favore. A conferma che, con buona pace dei nostalgici dell’Ulivo, a sinistra il campo può essere largo sul piano elettorale, ma si fa subito stretto, anzi spaccato, quando si entra nel merito delle questioni (e quella della guerra di Mosca a Kiev è questione dirimente). Francamente, dubito che sul piano nazionale possa prevalere il duo formato dall’armocromatizzata Schlein, che non ha mai governato in vita sua, e dall’avvocato con curriculum dopato Conte, che purtroppo è drammaticamente già stato al governo. Ma se anche fosse, quanto durerebbe? E perché i riformisti del Pd dovrebbero restare inermi a guardare il loro partito che, pur di far dispetto alla parte avversa, si evira affidandosi, come in Sardegna, ad una candidatura grillina e apprestandosi a subire l’egemonia del camaleontico Giuseppi, come fu durante il governo giallo-rosso?

La verità è che i due fronti del nostro bipolarismo, anzi bipopulismo, hanno difetti speculari e soffrono dei medesimi problemi: sono coalizioni costruite per vincere, non per governare, perché non discendono dalla convergenza di progetti politici condivisi, ma dall’unione di forze indistinte, messe insieme sulla base di un banale calcolo aritmetico. Era già stato così fin dalla nascita della cosiddetta Seconda Repubblica, dal 1994 e fino al 2011, quando il collante dei due fronti contrapposti era il berlusconismo e l’anti-berlusconismo. È stato così, e anche peggio, nella più recente stagione del populismo estremo, che per un breve momento si ha avuto il coraggio di chiamare Terza Repubblica, salvo smettere, immagino per pudore. Ora, dopo la sbornia di euforia di chi ha visto nella prima donna a Palazzo Chigi chissà quale svolta e la tendenza suicida di chi essendo soccombente si è andato a scegliere una leader fuori dal partito pensando di recuperare così la credibilità perduta, tutti i nodi tornano nuovamente al pettine. Con un’aggravante, oltre a quella dell’effetto accumulo: la crisi istituzionale che s’intravede sullo sfondo, con sempre maggiore nitidezza, tra il Governo, e in particolare la presidenza del Consiglio, e la presidenza della Repubblica. Insomma, la corda sempre più tesa tra Meloni e Mattarella. E sbaglierebbe chi pensasse che questa tensione sia figlia del progetto “premierato” che la leader di FdI si è messa in testa di realizzare. Certo, al Quirinale non ne sono propriamente entusiasti, ma il Capo dello Stato sa che si tratta di un’aspirazione legittima, e non farà nulla per ostacolarne il cammino così come è pronto a trarre le dovute conseguenze se quella riforma costituzionale – che modifica le sue prerogative derubricando l’attuale ruolo di garanzia in qualcosa di decisamente più notarile, per non dire ornamentale – dovesse davvero superare l’ostacolo parlamentare e quello referendario. No, le tensioni riguardano la postura dell’esecutivo e di chi lo guida. La vicenda di Pisa e le reazioni che ci sono state al severo richiamo del Capo dello Stato non sono che la punta di un iceberg di grandi dimensioni.

Per sua natura, Mattarella è tanto intransigente nella sostanza quanto morbido nella forma. Ma ciò non toglie che il contrasto sia forte e abbia pochi precedenti. Anche perché tende ad allargarsi anche a quei poteri (Corte Costituzionale, Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Servizi di Sicurezza, ecc.) che sono riassumibili nella definizione di Deep State, di cui Meloni con ingenua arroganza pensa di poter fare a meno. Ed è una cosa che, unita alla sua dimensione caratteriale – spigolosità, diffidenza assoluta, tendenza ad accentrare, ossessione fobica da congiure e tradimenti – rende la situazione particolarmente difficile. Tanto più in un contesto di pericolose complicazioni internazionali e di un pesantissimo carico di problemi interni, che meriterebbero ben altro clima e ben altro passo. Il rischio, per non dire la certezza, è che il già ampio fossato che separa il Paese dalla politica e dalle istituzioni si allarghi ulteriormente. E non a favore di qualcuno, di qualche potere troppo forte o reazionario, ma della babele. Di quella confusione subdola, perché sottotraccia, e per questo maggiormente pervasiva. È del caos silenzioso, impalpabile, inavvertibile, che dobbiamo avere paura.

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