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L'editoriale di TerzaRepubblica

Patrimoniale light o manovra hard

O FACCIAMO UN’OPERAZIONE STRAORDINARIA SUL DEBITO O UNA MANOVRA CE LA IMPORRÀ L’EUROPA

di Enrico Cisnetto - 20 gennaio 2024

Se la politica italiana, quella di governo così come quella di opposizione, avesse anche solo una minima capacità di analisi della realtà, smetterebbe di occuparsi delle molte quisquilie da cui è inesorabilmente attratta, e si concentrerebbe su due questioni fondamentali – che non a caso sono state oggetto delle prime puntate del 2024 di War Room – da cui in buona misura dipende il presente e il futuro prossimo dell’Italia. La prima, di cui mi occupo oggi qui, è relativa allo stato di salute della nostra economia e della finanza pubblica in particolare. La seconda, che affronteremo la settimana prossima, riguarda lo scenario internazionale, e in prospettiva le decisive elezioni europee di giugno e americane di novembre prossimi.

Mentre l’ultimo trimestre 2023 ha chiuso con il pil in leggera regressione, confermando la tendenza alla stagnazione iniziata in primavera, le prime stime sull’andamento dell’economia per quest’anno indicano una crescita di soli 4 decimi di punto, tre volte inferiore al +1,2% stimato dal governo e su cui sono stati costruiti, sulla carta, gli equilibri, già di per sé precari, della finanza pubblica (Banca d’Italia prevede due decimali in più, ma +0,6% resta pur sempre la metà di quanto indicato dal Tesoro). Questo lo dico non tanto ai fini di una assai probabile manovra correttiva da mettere in atto, magari su pressione di Bruxelles, in corso d’anno (di sicuro dopo le elezioni europee, per non “turbare” gli elettori) – non è la prima, non sarà l’ultima – quanto per ragionare sul debito. Si tratta di una questione dallo strano destino: è nello stesso tempo il problema numero uno e quello più ignorato, o se si vuole schivato. Sì, ogni tanto ci diciamo che si tratta di una cifra monstre (2.855 miliardi, pari a circa il 145% del pil, ergo 48 mila euro a testa, neonati compresi), che è ben al di sopra della media europea e che ci rende estremamente fragili. Quando proprio va bene, richiamiamo l’attenzione anche sul costo di questo macigno, meravigliandoci che gli interessi abbiano ormai raggiunto i 100 miliardi annui. Se poi andassimo anche a calcolare che negli ultimi 15 anni abbiamo speso circa mille miliardi di oneri passivi, ragionando che con tutti quei soldi, pari a 5 volte il Pnrr, si sarebbe potuto rivoltare il paese come un calzino rimettendolo a pari con la modernità, magari lo stupore e la preoccupazione aumenterebbero.

Invece i giornali, e con essi le dichiarazioni dei politici, sono pieni di stupore positivo perché le prime due emissioni di debito pubblico del 2024, Btp a 7 e 30 anni, hanno fatto registrare un vero e proprio boom di domanda, che è stata 10 volte superiore rispetto ai 15 miliardi chiesto al mercato. E non si fa caso al fatto che dei 1.245 miliardi di titoli sovrani che l’Eurozona dovrà piazzare quest’anno, ben un terzo, 400 miliardi sono italiani. E che le stime indicano in 50 miliardi i disinvestimenti di Btp che farà la Bce. E neppure si considerano aggravanti sia il fatto che gli investitori esteri che detengono i titoli pubblici italiano si siano ridotti al di sotto del 20% alla fine del 2022 (prima della crisi del 2008 avevano in mano il 50%) e che ora oltre metà del debito è nei portafogli di Bankitalia e delle banche italiane (a proposito della mancata firma del Mes perché tanto i nostri istituti non hanno bisogno di niente, pensate a cosa potrebbe accadere di fronte a una crisi da spread come quella del 2011), sia che la tendenza del mondo intero è a riempire gli stati di debiti (lo stock è arrivato a 307 mila miliardi di dollari, pari al 336% del pil globale), cosa che non solo non ci assolve, ma ci rende maggiormente vulnerabili.

La politica dello struzzo è figlia di uno schema mentale tanto semplice quanto fuorviante: se gli investitori hanno tutto questo appetito per i nostri bond sovrani, vuol dire che il debito pubblico italiano è perfettamente sostenibile. Peccato che, come hanno ben spiegato Alessandro Penati e Dino Pesole nella War Room di mercoledì 17 gennaio (qui il link), il tasso di ripagabilità del debito si basi sulla presenza costante di un robusto saldo primario (la differenza nel bilancio dello Stato tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) e sulla crescita della produttività (importante perché, da un lato, misura il rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate, e dall’altro riflette il progresso tecnico, i cambiamenti nella conoscenza e le variazioni nell’efficienza dei processi produttivi). Ora il primo, dopo essere stato per anni positivo, nel 2022 e nel 2023 è stato rispettivamente pari a -3,8% e a -0,8% del pil. E con la manovra di bilancio fatta dal governo Meloni, prudente rispetto alle promesse elettorali ma pur sempre a debito per 15 miliardi, appare del tutto probabile che il saldo primario rimarrà negativo anche per quest’anno. Mentre la produttività totale dei fattori (capitale e lavoro) è rimasta perfettamente inalterata per un lunghissimo arco di tempo (dal 1995 al 2021), per poi leggermente aumentare nel 2022 (+0,4%) grazie a quella del capitale (+2,7%) e nonostante quella del lavoro (-0,7%), relegandoci in fondo alla classifica europea.

Se poi a tutto questo si aggiungono le tante incognite congiunturali che il 2024 presenta – oltre alla crescita “zero virgola”, il progressivo disimpegno della Bce nell’acquisto dei titoli pubblici, che fin qui è stato un ombrello protettivo decisivo, e un possibile ritorno di fiammate inflazionistiche dovute alle crescenti tensioni geopolitiche, come nel caso del blocco del canale di Suez e le sue conseguenze sul commercio mondiale, che rischiano di rinviare il ribasso dei tassi di interesse – si capisce quanto opportuno sarebbe richiamare l’attenzione sul tema del fardello del debito pubblico e della necessità di affrontarlo una volta per tutte, prima che il bubbone ci scoppi in mano.

A farlo, meritoriamente, è stata Elsa Fornero (anch’essa ospite della War Room dedicata al debito), con una forte provocazione: ha evocato l’introduzione di una patrimoniale. La sua non è stata neppure una proposta strutturata, ma tanto bastato perché scoppiasse il finimondo. Ma si può fare un ragionamento serio, sgombro da luoghi comuni e asservimenti ideologici, sulla questione? Partiamo da un dato: nel loro complesso le famiglie italiane possiedono una ricchezza lorda valutabile in 10.500 miliardi, 5 volte il pil (20 anni fa era 6 volte). Di questo patrimonio, un po’ meno del 65% è rappresentato da immobili e beni reali, e un po’ più del 35% da attività finanziarie. Insomma, teniamo il capitale immobilizzato. La seconda considerazione è che l’Italia ha da tempo spostato il proprio baricentro dalla produzione del reddito alla gestione del patrimonio. Viviamo di rendite, anche se non di rendita, e così siamo diventati un “paese cammello”, che consuma le sue riserve senza riuscire a produrne di nuove. Una classe dirigente assennata questa valutazione dovrebbe farla. Ponendosi due domande: dove troviamo le risorse per gli investimenti che servono a rendere possibile un nuovo modello di sviluppo, basato sul profitto e sul lavoro anziché sulla rendita? E come facciamo a crescere se prima non ci liberiamo di una parte significativa del debito che ci zavorra? E se nel rispondere a questi interrogativi si dovesse arrivare alla conclusione che i nuovi investimenti e il taglio del debito devono giocoforza essere finanziati dal patrimonio, io non credo che ci sarebbe nulla di scandaloso. Si tratta però di vedere come si realizza questa sorta di grande conversione. Quella di tassare i grandi patrimoni immobiliari e finanziari è la via più facile, ma anche la più ruvida e punitiva. Viceversa, provare a riconvertire quei patrimoni in attività produttive, usando il doppio pedale degli incentivi e dei disincentivi, sarebbe la strada più complicata ma anche quella maggiormente virtuosa.

Da tempo molte componenti pensanti della nostra società, e io mi annovero immodestamente tra queste, hanno avanzato proposte precise. La più convincente, ai miei occhi, è la seguente: si crei una società veicolo da quotare in Borsa in cui mettere quegli asset, prevalentemente immobiliari ma anche mobiliari, che il Tesoro asserisce essere la parte più facilmente valorizzabile dei 1800 miliardi totali di patrimonio pubblico (si va 400 a 800 miliardi, a seconda delle valutazioni); il patrimonio non sia venduto tutto e subito, correndo così il rischio di essere svenduto, ma venga utilizzato solo dopo essere stato valorizzato e messo sul mercato a singoli pezzi; con il ricavato si riduca il debito (e quindi anche il deficit per via di minori oneri passivi), portandolo sotto la soglia del 100% più vicino possibile alla media Ue del 91%, e si finanzi la ripresa con investimenti in conto capitale, nella misura rispettivamente di due terzi e un terzo; ad essa si leghi una “patrimoniale light”, sotto forma di acquisto forzoso di titoli (azioni e/o obbligazioni convertibili) della medesima società quotanda il cui ricavato sia utilizzato come sopra. Light perché della patrimoniale ha l’elemento coercitivo (come tutte le tasse), ma nello stesso tempo mette in condizioni chi paga di avere in cambio un valore, cioè un titolo capace di generare un rendimento e negoziabile sul mercato secondario. Una differenza davvero non da poco rispetto ad una tassa “vuoto a perdere”. E non ci si venga a dire che così si farebbe concorrenza alle emissioni di nuovi titoli di Stato, perché se alle aste la domanda supera di addirittura dieci volte l’offerta, non ci sarebbe alcun problema a soddisfare entrambe le esigenze.

Naturalmente, questa “manovrona liberal-keynesiana”, con cui si raggiungerebbe il sempre agognato e mai centrato obiettivo di rendere compatibili rigore di bilancio e politiche di crescita, per essere pienamente credibile dovrebbe essere accompagnata da quelle riforme strutturali che non solo non abbiamo fatto, ma che in qualche caso sono state addirittura vanificate da vere e proprie “controriforme” (penso alla manovra previdenziale fatta proprio dalla Fornero con il governo Monti, che ci salvò dal default, e che via via è stata smontata in nome del populismo imperante). Ma c’è la chiarezza di idee sul disegno strategico che deve sottendere un piano di questa portata, e cioè che Italia s’intende costruire nei prossimi decenni? No, nemmeno lontanamente. E ci sono le condizioni politiche per realizzarlo? Neanche. Ma questo nulla toglie all’indispensabilità di questa impresa epocale. Perché una cosa deve essere chiara: o la facciamo nostra sponte, o l’Europa prima o poi ce la imporrà, e non sarà così light come quella che vi ho descritto. E sarà più prima che poi: per capirlo, basta misurare la distanza siderale che separa questi ragionamenti dai temi che l’agenda politico-mediatica ci propina quotidianamente.

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