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L'editoriale di TerzaRepubblica

Se il Pd diventa massimalista

IL PD DI SCHLEIN PUÒ RUBARE VOTI A CONTE MA NON COSTRUIRÀ MAI L’ALTERNATIVA DI GOVERNO (I RIFORMISTI CAMBINO CASA)

di Enrico Cisnetto - 20 maggio 2023

Lasciamo a chi si ciba di ridicolo il puerile tentativo di trarre un vincitore nazionale e un’indicazione politica generale dalle parzialissime elezioni amministrative (10% dei Comuni italiani) che si sono appena tenute e che peraltro devono ancora registrare l’esito dei ballottaggi. L’Italia non è tutta in mano a Giorgia Meloni e non guarda più di tanto a Elly Schlein, e chi si vuole sottrarre a questa alternativa non ha (ancora) un’offerta politica che lo possa soddisfare. Ecco cosa ha detto il nulla di fatto di domenica scorsa. E poi lo sanno tutti che la vera misurazione del consenso avverrà con le europee del prossimo anno, non solo perché riguarderanno l’intero corpo elettorale, ma soprattutto per via del metodo proporzionale con cui si svolgono, che spingerà a un “tutti contro tutti” che finirà per far esplodere le malcelate tensioni che fin dall’inizio della legislatura attraversano sia le forze di maggioranza sia quelle di opposizione. Tuttavia, da queste comunali qualche spunto si può ugualmente ricavare. In particolare, si conferma bassa l’affluenza alle urne – che non ha raggiunto il 60% nonostante si trattasse di consultazioni di massima prossimità, che di solito creano maggiore coinvolgimento – e si aggrava il fenomeno, ormai diventato patologico, della proliferazione delle liste civiche, segnale inequivocabile della crisi della politica realizzata attraverso i partiti. Ma soprattutto si consolida la fine del ciclo politico iniziato con il primo successo grillino del 2013, che Giovanni Orsina ha definito “della protesta”, nel quale veniva premiato dagli italiani più chi usava il tasto del biasimo che quello della rassicurazione. Infatti, la paura generata dal Covid prima, e poi dalla guerra e dal ritorno dell’inflazione, ha indotto e induce a preferire la stabilità di governo, e questo più che giocare a favore del centro-destra o del centro-sinistra, orienta il consenso verso figure che usano un linguaggio misurato e si atteggiano con fare moderato. Mi rendo conto che si tratta di categorie della psicologia e dell’immagine, ma oggi la politica più di questo non offre.

In questo scenario, è evidente che a trarre maggior vantaggio non può che essere chi sta al governo – e tra questi chi ci sta in modo credibilmente composto – e viceversa ne ha danno chi sta all’opposizione, che può convincere gli elettori a produrre un ribaltone solo se offre maggiori garanzie in termini di capacità di governo, non sbraitando più e peggio di prima. Ora, se c’era (e non uso a caso il verbo al passato) un partito che incarnava i tratti della forza di governo, questo era il Pd. Tanto che in molti – a mio giudizio, sbagliando – hanno attribuito il suo declino elettorale all’essere troppo “governista”. In realtà è per aver deluso chi si aspettava che governasse bene che tanti elettori l’hanno abbandonato, essendosi mostrato indeciso a tutto nel cercare strenuamente di piacere a chiunque. In tutti i casi, la risposta che il Pd ha dato alla sua crisi è stata l’esatto opposto di quello che la fine del “ciclo della protesta” avrebbe richiesto. Tralascio qui il giudizio sulla consistenza politica e le qualità personali di Elly Schlein così come sulle assurde modalità con cui è stata nominata alla segreteria del partito – ne ho già scritto qui e parlato in varie War Room, ora da aggiungere ci sarebbero solo le braccia cascate di fronte alla copertina di Vogue e alle rivelazioni sull’abbigliamento consigliatole dalla sua “armocromista” – e mi concentro su posizionamento politico e contenuti.

Non saprei dire se per scelta consapevole o per semplice conseguenza del suo modo di essere, Schlein sembra perseguire un unico obiettivo: erodere spazi e voti ai 5stelle. Per chi, come me, pensa che l’avvento del grillismo sia la più grande disgrazia capitata alla nostra politica negli ultimi tempi, lì per lì la cosa potrebbe apparire buona e giusta. Peccato che per farlo il Pd di Schlein debba necessariamente assumere la postura pentastellata, con ciò nascondendo i suoi tratti riformisti. Il risultato di questa trasformazione politica potrà anche far travasare un po’ di voti dai 5stelle al Pd – specie in elezioni amministrative – ma produce due effetti nefasti. Il primo è che il perimetro del centro-sinistra – ammesso e non concesso che sia corretto definirlo tale – rimane immutato, il secondo è che con il Pd spostato su posizioni massimaliste la (ri)conquista del centro, che è uno spazio molto più vasto di quanto dicano i numeri di chi maldestramente lo presidia, diventa mission impossible. Basta leggere il documento firmato da tre riformisti piddini doc come Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini – che trovo del tutto condivisibile ad eccezione della conclusione a cui giunge, e cioè l’indicazione ai riformisti di continuare a rimanere nel Pd anziché costruire un partito finalmente tutto loro – per capire come Schlein e la sinistra riformista siano incompatibili. 

Ma c’è di più. Se il Pd non riesce a far altro che evocare il fascismo per definire l’opposizione a Giorgia Meloni – rinunciando così a prendere atto che pur con tutti i suoi limiti e difetti, la presidente del Consiglio è molto meglio dei suoi alleati, con tutto quello che ciò potrà politicamente significare una volta che gli scontri dentro la maggioranza dovessero superare la soglia della tollerabilità e diventassero rottura – o a farsi cassa di risonanza delle posizioni della Cgil di Landini (i vecchi leader comunisti, abituati al contrario, si gireranno nella tomba) sui temi economici e sociali, se svicola sulle questioni ritenute spinose, come il termovalorizzatore che il sindaco Gualtieri vuole realizzare a Roma, allora sarà ben difficile che il Pd, anche se forte di qualche punto percentuale in più rubato a Conte, possa rappresentare un’alternativa credibile e vincente nei confronti dell’attuale maggioranza e soprattutto della leadership che la guida. Potrà non piacere il presidenzialismo evocato da Meloni e l’autonomia regionale che vuole Salvini – e a me non piacciano entrambe le proposte – ma sulle riforme istituzionali non serve ritirarsi sull’Aventino né basta disprezzare le idee altrui, quando per esempio lanciare l’idea di una nuova Assemblea Costituente come luogo deputato a mettere mano alla Costituzione senza forzature e scevri da interessi di bottega, potrebbe consentire al Pd di aprire una stagione politica davvero nuova, per sé e per il Paese. Anche perché occuparsi della crisi del sistema politico e istituzionale costringerebbe il Pd a fare finalmente i conti con una delle grandi incognite da sempre lasciate irrisolte: intende riesumare la vecchia vocazione maggioritaria che Veltroni gli ha iniettato nelle vene fin dalla sua nascita o vuole senza infingimenti e rossori in volto proporre lo schema proporzionale? Fin qui ha usato l’ambivalenza del “ma anche” (anche questo di veltroniana memoria), perdendo così il vantaggio sia della chiarezza che della leadership su una delle due opzioni. Ma affrontare il busillis significa anche scegliere tra l’idea del “campo largo”, inevitabile nel caso del maggioritario, e del “giocare a tutto campo” che il proporzionale consente.

Nel primo caso si passa inderogabilmente da un’alleanza organica, magari anche spinta fino all’integrazione, con i 5stelle di Conte, la Sinistra italiana degli ex D’Alema, Bersani e Speranza e la nebulosa Verdi-Più Europa con aggiunta di frattaglie varie. A Schlein sta bene – anche se dubito che le verrebbe lasciato lo scettro a lungo – ma davvero le diverse componenti del Pd più moderato, laiche e cattoliche, possono considerare questo il loro orizzonte? A parte l’inaffidabilità di Conte, che ora scavalca a sinistra il Pd e subito dopo flirta con Palazzo Chigi, magari usando la sponda di alcuni ambienti cattolici che ha sempre frequentato, per qualche posto in Rai e non solo, dove può portare una scelta del genere, se dal Paese sale la richiesta – forse confusa ma inequivoca – di essere preso per mano e rassicurato, non di essere portato in piazza? Per essere forza sicura di governo a Schlein può bastare non aver smentito, senza per questo aver sposato, la linea Letta sulla guerra, fatta di condanna senza sbavature di Putin e di appoggio incondizionato, anche militare, a Zelensky? Nell’affrontare questo tema cruciale, il mio amico Giuliano Cazzola ha rievocato lo strappo di Enrico Berlinguer quando affermò che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che in altre situazioni, per dire che alla sinistra di oggi manca quel coraggio (che peraltro allora non gli consentì di arrivare fino in fondo al processo di revisione ideologica, cui con molti omissis arrivò solo dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica) che non sarà certo l’armocromizzata Elly a darle.

Badate bene, cari lettori, per quanto sembri lontana e paia toccarci più sul piano umano che politico, sarà la guerra russo-ucraina – nella dimensione globale che ha assunto essendo chiaro che l’obiettivo vero di Putin fosse e resti la messa in discussione degli assetti geopolitici planetari, a cominciare da quelli europei che sono i più prossimi – a costringere l’Italia a chiudere la transizione infinita di questi ultimi trent’anni e a scegliere tra quella rivoluzione modernizzatrice tanto evocata quanto mai praticata, e il definitivo declino di ex potenza che si consegna al tribunale della storia per subire l’ignominia dell’emarginazione e del declassamento. E se si continua a pensare che possa essere il bipolarismo, ormai diventato bipopulismo perchè contrappone solo diverse forme di populismo, sovranismo e giustizialismo, il sistema politico cui affidare una scelta epocale come quella che vi ho descritto, significa aver perso in partenza la sfida. I riformisti del Pd ci pensino su: se è vero che la proposta politica populista è pervasivamente trasversale rispetto ai due campi del vecchio paradigma, il tema non può essere se e come fare opposizione al massimalismo della Schlein dentro il partito, ma organizzare altrettanto trasversalmente nel Paese la risposta riformista e liberale alla deriva cui ci consegnano le destre e le sinistre nate cresciute negli ultimi tre maledetti decenni.

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