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L'editoriale di TerzaRepubblica

Pil in rialzo, ma occhio alle insidie

IL PIL CRESCE PIÙ DEL PREVISTO MA GUAI A CREDERE CHE SIA TUTTO A POSTOLA POLITICA NON REGGEREBBE

di Enrico Cisnetto - 06 maggio 2023

Quando il bene è amico del male. È questo il rischio che l’Italia corre nel guardare con (il dovuto) compiacimento gli ultimi dati della congiuntura economica, che segnalano una crescita del pil nel primo trimestre dell’anno doppia rispetto a quanto previsto. Sia chiaro, niente di sconvolgente: stiamo parlando di +0,5% rispetto allo 0,2%-0,3% ipotizzato. Ma è pur sempre un risultato migliore di quelli conseguiti da Germania e Francia, e tale da indurre a stimare la crescita annua 2023 superiore a quell’1% previsto dal governo (nel Def) – d’altra parte il bottino già acquisito è +0,8% – che pure era stato giudicato eccessivamente ottimistico visto che Banca d’Italia qualche mese fa non andava oltre i tre decimi di punto e il Fondo Monetario pronosticava addirittura il segno meno. Ed è un risultato che coinvolge un po’ tutte le voci della congiuntura: sono andate bene le esportazioni, ha tenuto la domanda interna nonostante che l’inflazione sia stata in buona misura scaricata sui prezzi, hanno performato la manifattura e i servizi, con il turismo in gran spolvero. Inoltre, anche la cassa integrazione segnala un trend interessante, mentre le nuove normative del diritto societario relativo alle crisi d’impresa, pur non senza contraddizioni, hanno consentito di avviare a soluzione molte situazioni di aziende e gruppi in difficoltà. Tuttavia, non mancano complicazioni – come le tensioni che si registrano nella grande distribuzione o come segnala la nuova ondata di crediti bancari incagliati e decotti – e occorre sempre ricordare che una parte non secondaria della crescita è figlia di ulteriore spesa pubblica, bonus edilizi e sostegni Covid in primis, che ragionevolmente è destinata a ridursi se non a scomparire del tutto. 

Insomma, da un lato non va trascurato il fatto che in una fase storica in cui shock positivi e negativi si susseguono velocemente, è probabile che da trimestre a trimestre si possa avere una forte volatilità. Dunque, il contesto economico, nostro e internazionale, resta fragile e dalle prospettive incerte. Dall’altro lato occorre poi prendere atto che le cose stanno andando meglio del previsto – per mesi abbiamo vaticinato tutti, me compreso, l’arrivo dell’ennesima recessione – ed è inevitabile che questo trend si trasformi in ottimismo. Inevitabile, giusto e opportuno – l’economia vive di aspettative – ma al tempo stesso pericoloso. Per una serie di motivi che vale la pena analizzare, anche in funzione del quadro politico e degli sviluppi che potrà avere.

La prima ragione di preoccupazione ha a che fare con la tenuta dei conti pubblici, e in particolare con la sostenibilità del nostro debito. L’intervento di Goldman Sachs che ha sconsigliato i nostri Btp, i giudizi severi di Moody’s e del Wall Street Journal, il ritorno dello spread vicino a quota 200, sono segnali inequivocabili: dopo una fase di relativa tranquillità iniziata con il varo del governo Meloni e consolidatasi dopo la manovra “senza grilli per la testa” di fine anno, i riflettori sono tornati ad accendersi sul “caso Italia”. E guai ad evocare il solito complotto dei “poteri forti”, che è nella testa solo dei governanti impotenti e della loro claque mediatica, o a pensare che le buone notizie sul fronte del pil siano sufficienti a farle spegnere, queste attenzioni dei mercati e della comunità internazionale. Pesano di più, per esempio, le notizie provenienti da Francoforte: non tanto l’aumento di un altro quarto di punto dei tassi – a ben vedere il pil nominale, cioè pil reale e inflazione sommati, cresce ben di più dei tassi d’interesse – quanto la decisione della Bce di anticipare a luglio la fine del programma di acquisto dei titoli di Stato, di cui noi in questi ultimi anni siamo stati i principali beneficiari. E più in generale, suggerisce Carlo Bastasin su Repubblica, occorre riflettere bene su alcune questioni poco rassicuranti: le condizioni finanziarie che si stanno manifestando nelle economie occidentali – vedi i crack bancari che si sono profilati negli Stati Uniti e in Svizzera – e il minore sostegno che verrà dalle banche centrali. Ergo, nei prossimi mesi le circostanze potrebbero rendere la situazione italiana particolarmente difficile da gestire, tra inflazione, economia ancora fragile e crescenti incognite sulla disponibilità di credito (le banche commerciali stanno già riducendo il rischio degli attivi, contraendo i prestiti alle imprese). 

Il vero rimedio si chiama Pnrr, ovvero la sua piena ed efficace realizzazione, che in termini di pil potrebbe valere almeno un paio di punti, ma soprattutto vale tantissimo in termini di credibilità dell’Italia nel contesto europeo, visto l’insistenza con cui a suo tempo sono state richieste quelle risorse e considerato che a Bruxelles, tra mancata approvazione del Mes (caso inspiegabile sotto qualunque punto di vista) e litigi con i francesi, Roma non gode certo di una gran reputazione. Ma quella dell’uso dei fondi continentali nei tempi e nei modi previsti, riforme strutturali comprese, è anche la questione più dolente delle tante che sono nelle mani del governo, aperte e di non facile chiusura. Per questo i numeri indicati nel Def potrebbero facilmente trasformarsi da sostanzialmente realisti a eccessivamente ottimistici.

E qui scatta la seconda preoccupazione: tutto questo avviene non solo nel contesto di una diversa politica monetaria rispetto a quella di cui abbiamo beneficiato – senza essere capaci di approfittarne – nell’ultimo decennio, ma proprio mentre l’Europa riattiva, pur ridefinendone i termini, il Patto di stabilità. Ora, per quanto possano venir meno le antiche rigidità, non fosse altro perché questa volta sono i tedeschi a rifiutarle, comunque è già stato deciso che restano fermi i paletti del 3% nel rapporto deficit-pil e del 60% in quello debito-pil. Anche qui: è giusto muoversi sul piano politico e diplomatico per ottenere la soluzione che si ritiene più confacente agli interessi nazionali – molto meno lo è facendo cagnara – ma non prima di aver fatto pubblicamente l’esame di coscienza cui siamo sempre sfuggiti circa la “produttività”, anche sociale oltre che economica, del nostro deficit, e quindi della spesa pubblica, e del debito accumulato rispetto ai livelli di guardia raggiunti. Se lo si facesse, questo esercizio di coscienza, se ne ricaverebbero tutti gli elementi necessari a mettere a fuoco le ragioni del declino strutturale del Paese, e si potrebbe finalmente riarticolare il sistema politico intorno alle ricette per uscirne e non più a vetusti conflitti ideologici o anacronistiche contrapposizioni personali. Ma di tutto questo non si vede neppure l’ombra, e così siamo costretti a fare i conti con la scarsa credibilità e il senso di inaffidabilità che questo deficit genera verso il Paese agli occhi dei nostri partner (sentimenti legittimi, pur con tutti i difetti di costoro e con i limiti che ancora ha la costruzione comunitaria) quando avanziamo pretese in Europa, al di là che siano fondate o meno.

E a migliorare il nostro rating paese complessivo certo non aiutano, oltre ai pasticci sul Pnrr, le misure più o meno populiste promesse agli italiani e che mettono il governo – questo come quelli che lo hanno preceduto, senza distinzione alcuna – in condizione o di disattendere le attese suscitate, con tutto quel che ne consegue in termini di tenuta politica e di consenso, o di assecondarle, con ciò creando ulteriori squilibri alla finanza pubblica. È questo il terzo motivo di preoccupazione: i margini di manovra sono stretti, se non inesistenti, a meno che non si voglia mettere mano alla spesa pubblica corrente, riselezionandola con coraggio e lungimiranza. In assenza di ciò è del tutto evidente, per esempio, che sarà impossibile realizzare la tanto sbandierata riforma fiscale, salvo qualche ritocco marginale che lascerà il tempo che trova, o che non si potrà rendere permanenti i tanti bonus in essere o inventarne di nuovi. A meno di sforare sui conti. Nel primo a caso la reazione sarà degli elettori disillusi, nel secondo dei mercati prima ancora che di Bruxelles.

Se questo è il quadro entro il quale ci muoviamo, e di cui si ha scarsa consapevolezza e ancor meno voglia di renderlo chiaro agli occhi degli italiani per paura delle conseguenze, Dio non voglia che fattori esogeni – come eventuali complicazioni derivanti dagli sviluppi della guerra russo-ucraina e più in generale dalla messa in discussione degli equilibri geopolitici mondiali – o fattori endogeni, come lo spezzarsi più repentinamente del previsto del filo ormai sottile che tiene a galla il nostro sistema previdenziale, sempre più vicino all’insostenibilità, facciano scattare emergenze che metterebbero a nudo fino in fondo la precarietà del nostro sistema politico. Avendo la maggioranza di centro-destra mostrato in soli 7 mesi di governo tutti i suoi limiti programmatici, le sue divisioni politiche ed essendo evidente quanti pesi la disabitudine della sua classe dirigente alla gestione del potere, avendo il Pd imboccato la strada del massimalismo tipica del partito che trova solo nello stare all’opposizione la sua ragion d’essere ed avendo il Paese consumato con Draghi l’esperienza dei governi di grande colazione a conduzione tecnica, quali formule politiche potrebbero essere sperimentate di fronte a emergenze di natura straordinaria? Se ci pensate, sono passati esattamente trent’anni da quell’esplosione di rancore verso la classe politica che fu la contestazione, con annesso lancio di monetine, all’indirizzo di Bettino Craxi, esposto al pubblico ludibrio come capro espiatorio del fallimento della Prima Repubblica. 

È amaro constatare che in questi tre decenni – un tempo enorme, se si considera che per far rinascere l’Italia dopo la seconda guerra mondiale ne bastò molto meno – non solo nessuno dei grandi nodi del sistema paese è stato sciolto, ma anzi che l’Italia abbia imboccato, a cominciare proprio dall’ipocrisia giustizialista di allora, la strada di un declino inesorabile. Un destino cui nessuno è stato fin qui in grado di sottrarci, neppure lo sforzo della parte produttiva del Paese, ammirevole perché ci ha tenuto in qualche modo a galla ma privo della capacità di diventare un fenomeno sistemico.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.