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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Democrazia malata

L’ASSENTEISMO PARLAMENTARE È CAUSA E CONSEGUENZA DELLO SCADIMENTO DELLA POLITICA

 

di Enrico Cisnetto - 29 aprile 2023

A furia di curvarsi, il “legno storto” prima o poi si spezza. È quello che sta capitando alla politica italiana, che rischia di crollare sotto il peso delle sue storture strutturali. L’episodio capitato alla Camera sulla mancata approvazione del Def non insegnerà nulla – e sarà dunque destinato a ripetersi – se lo si derubrica a “spiacevole incidente” come hanno fatto dalle parti della maggioranza, e anche se lo si bolla come tassello di chissà quale complotto politico come si sono precipitati a fare quelli dell’opposizione. No, quelle assenze in aula rappresentano qualcosa di molto peggio, sono l’ennesimo segnale del terrificante impoverimento della classe politica, dei partiti, del Parlamento. Una marea montante di mediocrità che riguarda tutti, indistintamente, e che – sia chiaro a scanso di equivoci qualunquisti – ha il suo pendant nella società civile, che non è da meno. Inutile lamentarsi del fatto che un gruppo consistente di parlamentari abbia preferito farsi il lungo ponte che unisce 25 aprile e primo maggio invece di compiere il proprio dovere alla Camera – magari ignorando che quella votazione richiedeva la maggioranza calcolata sui componenti della Camera e non sui presenti – se non si parte dal presupposto che ormai da diverse legislature, e le due ultime in particolare, le camere si sono riempite di dilettanti allo sbaraglio, frutto avvelenato dei “listini bloccati” e figli della cultura del “uno vale uno”. Inutile lamentarsi, se non si ragiona una volta per tutte sulla tossicità della personalizzazione della politica, del leaderismo esasperato, dei partiti di proprietà privata sprovvisti di qualunque regola di democrazia interna; virus che hanno impedito il confronto delle idee e dei programmi, la dura selezione di chi si candida a ricoprire cariche pubbliche, la formazione politico-culturale degli elettori. E, infine, se non si capisce come l’origine della degenerazione della politica stia nel rovesciamento del suo rapporto con il consenso. Dall’avvento sulla scena di Berlusconi in poi non si è più fatta politica per cercare il consenso, ma si è cercato il consenso per fare politica. Naturalmente piegando ogni scelta al mantra del “piacere il più possibile a quanti più italiani possibile”, premessa del “dare tutto a tutti” di cui la bonus economy dell’ultimo decennio è poi stata la diretta conseguenza. 

Questa involuzione, peraltro, non ha per nulla contenuto i difetti di quella che – troppo spregiativamente – negli anni della Prima Repubblica è stata chiamata “partitocrazia”. Si accusavano i partiti, allora, di sovrapporsi alle istituzioni, di coltivare clientele, di rosicchiare gli spazi che avrebbero dovuto essere ad appannaggio degli interessi privati e del mercato. Non è il caso di misurare qui il tasso di ingenerosità di quegli strali, ma una cosa è certa: oggi è molto peggio, con il partito trasversale della pochezza ormai largamente preponderante. Purtroppo, le formazioni politiche hanno del tutto rinunciato alla loro originaria funzione di filtro tra società e istituzioni, per di più avendo cancellato il ruolo di un anello di congiunzione fondamentale come quello rappresentato dai corpi intermedi. I riferimenti culturali non ci sono più, i valori da promuovere tanto meno, alle idee forti e ai progetti per il futuro si è rinunciato, mentre persino gli interessi materiali di riferimento sono rappresentati in modo generico e in base al principio di non scontentare nessuno. E così resta solo la raffigurazione mediatica di leader e leaderini, la cui durata è ormai pari a quella di uno yoghurt, scandita dall’ansia di apparire e dalla paura di essere dimenticati, che genera quella che Giuseppe De Rita ha chiamato la “bolla del virus dell’opinionismo militante” (sondaggi, social media, talk show), cioè quando la politica diventa dominata dalla propensione a cavalcare le ondate di emotività collettiva, quasi sempre non suffragate da elementi circostanziati quando non addirittura inquinate da fake news e leggende metropolitane.

Se poi a partiti che non sono più tali e a un personale politico inevitabilmente mediocre si aggiunge il depauperamento del ruolo e il cattivo funzionamento del Parlamento, senza peraltro che a questo sia corrisposto una crescita del tasso di autorevolezza e capacità di decisione dei governi, si arriva ad una vera e propria crisi della democrazia rappresentativa, certificata dal crollo verticale della partecipazione non solo alla vita pubblica, ma persino all’esercizio dell’elementare dovere del voto. Fenomeno cui si cerca di sopperire con un rimedio peggiore del male: usando gli additivi delle normative elettorali (premi di maggioranza, soglie di sbarramento, ecc.), che fanno sì che si abbia la maggioranza in parlamento – teorica, visto che la si perde facilmente per strada come è appena accaduto – nonostante si rappresenti solo un quinto degli elettori aventi diritto al voto, e quindi dell’intera società che poi si dovrebbe governare. La conseguenza è una democrazia formale, e come tale destinata al fallimento. 

Ci si è scandalizzati, e giustamente, dei deputati assenti al momento del voto sul Def, che ha costretto il governo ad una rincorsa affannosa proprio mentre si erano accesi i riflettori di Bruxelles e dei mercati sui nostri conti pubblici, sulla tenuta del debito rispetto alla crescita del pil e sui tempi e i modi di realizzazione dei progetti e delle riforme del Pnrr. Ma non è persino peggio che in tre mesi siano stati varati soltanto 21 dei 145 dei decreti e dei provvedimenti attuativi previsti dalla manovra di bilancio a suo tempo approvata? Vuol dire che oltre l’85% delle misure è solo sulla carta e che un quarto degli atti in sospeso è ormai fuori tempo massimo, bloccando risorse per due miliardi e mezzo. E non è che un esempio di come le leggi, sulle quali tanto ci si azzanna in fase di discussione preventiva, restino poi miseramente lettera morta. Come stupirsi, poi, se l’Italia si rivela incapace di spendere le risorse europee, che peraltro reclama con alterigia, se non riesce ad essere credibile in Europa e nel mondo, se non possiede un progetto condiviso di crescita e modernizzazione. La verità è che in questo vuoto pneumatico si preferisce voltare la testa indietro e lanciarsi in discussioni infinite, che ciclicamente si ripresentano sempre uguali a sé stesse, come quelle sul tasso di fascismo che alberga nella destra – che in questi giorni intorno alla ricorrenza della Liberazione hanno dilagato senza portare un mattone che fosse uno alla costruzione di una memoria condivisa – o sui residui di comunismo che inquinano la sinistra. Oppure ci si infila in pantomime che sarebbero divertenti se non facessero piangere, come la penosa querelle politico-mediatica nata dalla stravagante idea di Elly Schlein – segno di un terrificante deserto mentale – di farsi fotografare per le pagine patinate di Vogue raccontando che si veste obbedendo ai sapienti consigli di una “armocromista”. Non so a voi, ma a me di Giorgia Meloni preoccupano di più le evidenti lacune nella gestione del potere e nella progettualità di governo, che non il suo tasso di nostalgia per il tempo che fu (e che oggi è morto e sepolto). E della neo-segretaria del Pd mi preoccupa molto il massimalismo populista sotto cui nasconde un vuoto di idee e di cultura politica, e per niente il suo abbigliamento finto trasandato (che peraltro mi pare coerente con il suo profilo radical-chic).

Ma una cosa va detta senza ipocrisia: della crisi sistemica della politica italiana – peggiore ma non così significativamente diversa da quella delle altre democrazie occidentali – portiamo la responsabilità tutti noi, l’intero Paese. E non solo perché ci disinteressiamo della politica, e quando invece la osserviamo è soprattutto per assecondarne i più bassi istinti, ma anche e soprattutto perché noi stessi ci siamo accontentati di vivere il presente a scapito del domani, senza progettualità, senza impegno. E quand’anche ci capita di guardare al futuro, lo facciamo nel privato, senza mai praticare la fatica della dimensione collettiva. Manca l’ambizione sociale, e senza quella è inutile lamentarsi dei parlamentari assenteisti. Non stonano, nel quadro – immagino armocromisticamente nero – che ritrae il popolo italiano.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.