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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il Governo cambi registro con l'Ue

TROPPI CONTENZIOSI CON L’EUROPA FANNO MALE ALL’ITALIA E NON CONVENGONO AL GOVERNO

di Enrico Cisnetto - 31 marzo 2023

Nella vita, quando vola una sberla, la colpa di chi è, di chi lo schiaffo lo assesta o di chi lo prende? Rispondere in un modo o nell’altro a questa domanda definisce la propria filosofia esistenziale. Nel primo caso s’indulge al vittimismo e alla deresponsabilizzazione, nel secondo si tende all’autocritica e all’assunzione di responsabilità. Ora se si trasferisce questo approccio alla politica, e in particolare al rapporto tra diversi poteri, si può arrivare a molte conclusioni interessanti. Si prenda, per esempio, la questione del rapporto tra l’Italia e l’Europa. Storicamente, alla Comunità europea noi abbiamo attribuito molte colpe – ingerenze, soprusi, obblighi, dinieghi – cosa che è servita o a scaricare responsabilità o a giustificare scelte ritenute impopolari (il famoso “ce lo ordina l’Europa”). Salvo poi recarci a Bruxelles con il cappello in mano a chiedere, quando non a gridare ai quattro venti ciò che ci riteniamo in diritto di pretendere. E tutto questo esigendo solidarietà per le nostre condizioni di svantaggio, ritenute congenite se non addirittura figlie della cattiveria e dell’egoismo altrui, quando invece dipendono totalmente dalla nostra volontà e dalle nostre capacità. E se ci sono degli interessi avversi – come è normale che avvenga nella vita – dipende da noi saperli contrastare o almeno contenere, mentre non aiuta affatto piagnucolare e accusare.

Sono queste le riflessioni cui sono stato indotto osservando che per l’ennesima volta – e sotto tutte le latitudini politiche, a testimonianza che si tratta una patologia iscritta nel dna del Paese – si aprono contenziosi con l’Ue come se piovesse, quando invece le contingenze dovrebbero da un lato indurre alla prudenza e dall’altro spingere ad analizzare in senso critico i nostri comportamenti. L’ultimo problema che è sorto riguarda i tempi di attuazione del Pnrr e di conseguenza i risultati prodotti dall’impiego delle cospicue risorse comunitarie che ci sono state messe a disposizione (molto di più di qualunque altro paese) nonostante il livello allarmante del nostro debito pubblico. Avendo (giustamente) stabilito che le erogazioni comunitarie dipendono dallo “stato avanzamento lavori”, ora c’è in scadenza una tranche da 19 miliardi, la terza, che rischia di bloccarsi perché siamo maledettamente indietro. Non potendo negare l’evidenza, ecco che allora è subito scattata la caccia al colpevole, che il governo Meloni ha individuato – non senza qualche ragione, sia chiaro – nel governo Draghi. Senza però rendersi conto che, in primo luogo, avere la sindrome del reo non serve a nulla, anzi, e che, in secondo luogo, prendersela con il predecessore di Meloni significa accusare l’Europa, a cui vertici – comunitari e delle singole cancellerie – l’ex governatore della Bce ha goduto e gode di stima e considerazione ben più alte di quel po’ faticosamente conquistato dall’ex sovranista arrivata al potere in Italia. Anche perché non sono mancate le critiche alla Commissione che ha il compito di controllare lo “stato avanzamento lavori”, accusata niente di meno di essere prevenuta e partigiana. Alimentando così il sospetto che l’atteggiamento prudente fin qui tenuto dalla presidente del Consiglio, e mostrato soprattutto in occasione del varo della legge di bilancio, sia stato solo strumentale, e facendo immaginare che la campagna elettorale per le Europee dell’anno prossimo possa essere impostata mettendo all’indice la Ue. Probabilmente non è così, non fosse altro perché quella è la cifra della Lega, e se c’è una cosa che più di ogni altra vuole la Meloni è risultare distinta e distante da Salvini, tanto più sul piano internazionale.

Ma il fatto è che la spinosa questione del Pnrr – che chiama in campo i difetti congeniti dell’Italia, ed è oltre che decisiva per la crescita della nostra economia, la cartina al tornasole della riformabilità del sistema paese – non è sola nella lista dei contenziosi europei. C’è il Mes, o Fondo salva-Stati, organizzazione di assistenza finanziaria per gli Stati membri in difficoltà, che l’Italia non ha ancora approvato pur non comportando un obbligo di uso (le condizioni sono stringenti) ma la cui mancata convalida impedisce anche agli altri di poterlo usare. Al “nodo Mes”, che Meloni ha cavalcato impedendo che arrivasse in Parlamento il voto di ratifica soprattutto per evitare che fosse il solo Salvini a cavalcare l’onda lunga dell’euro-scetticismo, è intimamente legata la partita per la modifica del Patto di stabilità, da cui dipendono le politiche di bilancio. Il suo ritorno dopo lo stop causa Covid è sicuro, le (più o meno) nuove modalità sono incerte. È del tutto evidente che la Germania e i paesi ad essa collegati, da sempre critici nei confronti dei livelli di deficit e di debito italiani, spingeranno per mantenere i “tetti” (3% di deficit-pil e 60% di debito-pil), ed è lecito opporsi alla rigidità (o stupidità, per dirla con Prodi) dei vincoli. Ma è bene dirci con franchezza che avendo speso più di chiunque altro a fronte dell’emergenza Covid, portando il debito pubblico intorno al 150% del pil, e avendo un passato non proprio commendevole di politiche di spesa, pretendere di passare per verginelle non sembra essere il metodo migliore per difendere gli interessi nazionali. Perché, per esempio, non fare propria la proposta del professor Mario Baldassarri, che indica nella distinzione tra spesa pubblica corrente e spesa per investimenti la chiave per rendere intelligenti, cioè elastiche e nello stesso tempo rigorose, le regole europeo di bilancio? In Europa non serve abbaiare, meglio autorevolmente proporre e convincere.

C’è poi la legge sulla concorrenza, che ci ha visto reclamare l’interesse nazionale, che secondo il governo sarebbe stato leso dall’applicazione della direttiva Bolkestien agli stabilimenti balneari (“una disparità incostituzionale”, l’ha definita Meloni). E c’è la questione dei carburanti, o meglio della definizione di quelli che saranno ammessi in alternativa alle auto elettriche che dal 2035 diventeranno obbligatorie: l’Italia ha giocato una partita a favore del bio-fuel, ovvero del diesel prodotto dalla raffinazione di materie prime vegetali, in particolare scarti e residui di produzione o colture non idonee per utilizzi alimentari, e l’ha persa. Mentre la Germania ha spinto l’e-fuel, un combustibile sintetico che si ottiene da acqua e aria, ed ha prevalso. Tedeschi cattivi e il commissario europeo per l’ambiente Frans Timmermans venduto? O noi incapaci di fare i nostri interessi, ammesso (e non concesso) che la nostra scelta fosse quella giusta? Ognuno usi la parabola dello schiaffo come ritiene.

Senza contare che resta imperitura sul tavolo la questione migranti, tema su cui ogni governo non ha trovato di meglio da fare che coprire le proprie incapacità e inefficienze – paradossalmente uguali sia nell’ottica dei respingimenti che dell’accoglienza – sotto una spessa coltre di improperi lanciati verso Bruxelles e i singoli paesi, rei di giocare allo scaricabarile. Ora è probabile che ciò sia anche vero, almeno in una certa misura, ma questo non toglie come sia palese l’uso strumentale del tema, in chiave di presa di posizione ideologica e politica a fini elettorali. Una modalità che, unita alle vicende poco commendevoli dei morti in mare e degli sbarcati trattati come bestie, certo non ci rende credibili anche quando diciamo e chiediamo cose ragionevoli. 

Tutto questo senza contare i problemi bilaterali che si sono manifestati in questi mesi: le difficoltà al limite della rottura con Macron, il mancato feeling con Scholz, l’inesistenza di relazioni minimamente significative con i paesi del nord ma anche con la Spagna. Restano Ungheria e Polonia, la cui amicizia crea più danni che vantaggi. Insomma, il perdurare della guerra, con le mire egemoniche di Putin che vanno al di là dell’Ucraina, il mettersi al centro del ring della Cina – che spazia dall’ambiguità della posizione con la Russia che le consente di essere vicino a Mosca e nello stesso tempo di candidarsi ad una mediazione per il cessate il fuoco, fino alla capacità di far sospendere le ostilità tra Iran e Arabia Saudita, mossa vincente nello scacchiere mediorientale (sul tema si veda la War Room di mercoledì 29 marzo, qui il link) – e il profilarsi all’orizzonte del rischio di una possibile crisi sistemica del sistema bancario, consiglierebbero di lasciar stare le mille stupide e inutili beghe del cortile politico nostrano, e di concentrarsi sulle grandi questioni strategiche che incombono. Meloni fin qui è stata ineccepibilmente atlantista e rigorosamente ligia ai doveri cui l’Italia è chiamata nell’ambito dell’Alleanza Atlantica verso Kiev. Ora sarebbe bene che facesse altrettanto sul fronte più strettamente europeo. Sulla base della consapevolezza che non si tratta di un’opzione, ma di una scelta di vita o di morte. E se poi sono altri, nella sua maggioranza, ad impedirlo, lo dica con chiarezza e li scarichi. Nell’interesse del Paese, e suo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.