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L'editoriale di TerzaRepubblica

Povera Italia tra Sanremo e Bruxelles

IL FESTIVAL DIVENTA IL RING DELLA POLITICA E MELONI IMPARI CHE LA POLITICA ESTERA NON È (SOLO) SEDERSI A TAVOLA

di Enrico Cisnetto - 10 marzo 2023

Premessa: come ormai da molti anni, non ho visto Sanremo (mi sono consolato rivedendo su Raiplay l’esilarante “processo al festival” del trio Arbore-Banfi-Mirabella, datato 1990). Non è snobismo, il mio, ma disgusto preventivo verso la trasformazione di quella che per anni è stata una straordinaria manifestazione canora, popolare nel senso migliore del termine, in una kermesse senza né capo né coda sempre più specchio del declino italico, e non solo musicalmente parlando. Le cronache di questi giorni mi confermano di aver fatto bene: dal cretino che prende a calci i fiori del palcoscenico all’idiota che straccia la foto di un ministro (per quanto possa stare sullo stomaco), dal presunto comico in mutande che non fa ridere nessuno alla milionaria (in soldi e followers) ebete che legge la letterina da quinta elementare. Robaccia. Solo che questa volta si è andati oltre, tanto che da giorni – ahinoi – il dibattito politico ruota intorno a Sanremo. Da un lato è montata una querelle, durata settimane, sulla partecipazione del presidente ucraino Zelensky – presenza fisica, videomessaggio, lettera – che accostata alla drammaticità della guerra fa vergognare. Dall’altro lato, si è voluto usare il festival come luogo per metter su un corso di educazione civica, coinvolgendo anche il Capo dello Stato in un esperimento di “pedagogia repubblicana” a buon mercato collocato in un contesto non solo inadeguato in sè, ma anche carico di cattivo gusto. Così Sanremo è diventato terreno di “confronto politico” (sic!), con una sinistra che ha sperato che il “politicamente corretto” riversato a fiumi sul palco dell’Ariston fosse funzionale a farla uscire dal suo stato ormai catatonico e la destra che, forte delle aspettative del voto di domenica in Lombardia e Lazio, estrae dal suo repertorio classico un sonoro “chissenefrega” di Amadeus e dei suoi ospiti.  

Ma può un paese che vive un momento storico a dir poco complesso e che si trascina dietro problemi atavici irrisolti, ridursi a confinare le sue dinamiche politiche dentro un recinto di questo genere? Non è neanche più populismo recitato a fini elettorali, è drammatico decadimento culturale, oltre ogni livello minimo di decenza. E dentro questo contesto rischia di farsi risucchiare anche Giorgia Meloni. La quale, dopo essere riuscita a varcare la soglia dei primi 100 giorni a palazzo Chigi senza infamia, evitando quanto era stato paventato da quel mondo mediatico che non ha tollerato la vittoria della destra alle elezioni – ma anche senza particolare lode, visto che il suo governo ha vissuto di quotidianità, senza riuscire a dare, probabilmente perchè ne è privo, il senso di una strategia di lungo termine – negli ultimi tempi sembra sopraffatta dagli eventi. Preda di un nervosismo che ha molte ragioni. La prima deriva da un forte senso di vulnerabilità, accentuato dalla sospettosità e dalla diffidenza che sono tratti tipici dell’esperienza politica “catacombale” che le è propria. E non fidandosi della narrazione di nessuno, finisce con l’impoverire il flusso delle informazioni e delle interpretazioni da dare alle medesime, e con ciò aumentando notevolmente le probabilità di sbagliare. Il secondo motivo di nervosismo deriva dall’accrescere delle tensioni di cui è finito preda il suo stesso mondo, dentro il quale si è scatenata una competizione senza esclusione di colpi e che la espone ad imbarazzi evidenti come quello vissuto dopo l’exploit del duo Donzelli-Delmastro, e dalle fibrillazioni interne alla maggioranza, destinate ad esplodere se il risultato del voto regionale dovesse, come è molto probabile specie in Lombardia, consacrare un distacco abissale tra Fratelli d’Italia e i “parenti poveri” di Lega e Forza Italia. La presidente del Consiglio non teme di perdere le elezioni, nonostante le debolezze dei candidati alla presidenza delle due Regioni in ballo, ma sospetta che dal voto il governo esca paradossalmente indebolito proprio quando nella sua agenda farà capolino un tema divisivo come quello delle nomine dei vertici di gran parte delle aziende partecipate dallo Stato. Così il suo proverbiale decisionismo all’insegna di “io sono Giorgia” si è appannato di fronte al “caso Nordio”, che avrebbe meritato ben altro scudo da parte di chi lo aveva scelto come ministro, soprattutto perché è apparso evidente che dietro le polemiche politico-mediatiche sollevate intorno alla vicenda Cospito c’era il tentativo della minoranza che comanda nella magistratura (per colpevole acquiescenza della maggioranza silenziosa) di minare sul nascere la riforma della giustizia che Nordio ha (aveva?) in animo di realizzare. Ed è apparso non più di un belato quell’auspicio ad “abbassare i toni” con cui ha tentato di spegnere l’incendio appiccato dallo sguaiato intervento di Donzelli alla Camera, salvo imboccare la strada opposta – sbagliata – dell’alzare i toni per trasformare lo sparuto drappello degli anarchici in chissà quale pericolo per lo Stato, e quindi in nemico dei guardiani della Nazione.

Infine, il terzo, e forse più importante di tutti, motivo di nervosismo di Meloni, deriva dal suo non padroneggiare lo scenario internazionale, con tanto di impietosi paragoni con Draghi. Un fronte dove inizialmente, pur pagando un inevitabile prezzo al noviziato, aveva tutto sommato dato l’impressione di sapersela cavare, pur con qualche errore di postura e di comunicazione: nessuna crisi di rigetto a Bruxelles né tantomeno a Washington. Poi sono iniziate le incomprensioni con Macron, i nulla di fatto con Scholz, le scivolate verso il confortante asse con Orban e i paesi Visegrad, il cui prezzo è però l’isolamento con chi conta in Europa, a cominciare dall’asse franco-tedesco. Fino a quella “inopportuna” uscita sulla “inopportunità” del vertice di Macron e Scholz con Zelensky, che da un lato ha generato la piccata risposta del presidente francese e dall’altro ha reso ancora più evidente l’esclusione dell’Italia dall’Europa che conta. Alla presidente del Consiglio sarebbe bastata una telefonata a Lucio Caracciolo per capire che, come ha scritto sulla Stampa, la politica estera non si fa con i lamenti e che prendere atto che la Francia, unica potenza nucleare europea, e la Germania, di gran lunga maggiore economia continentale nonostante la recente battuta d’arresto, hanno un peso e un ruolo diversi da quello della super indebitata Italia, non è solo un necessario atto di modestia e un’utile manifestazione d’intelligenza politica, ma anche la premessa per accorciare quelle distanze e poter giocare ad armi (quasi) pari. Draghi aveva colmato il divario con la sua credibilità personale. È ovvio che Meloni, non disponendo di quella, anzi dovendo colmare i gap che derivano dalla sua storia politica – non è che a Bruxelles così come nelle diverse cancellerie continentali si siano dimenticati delle sue battaglie politiche sovraniste apertamente anti-europee – deve recitare un altro copione. Questo non significa assumere una postura fantozziana, abdicando al sacro dovere di difendere gli interessi nazionali, tutt’altro. Ma, come spiega Caracciolo, non è il solo sedersi a tavola a favore di photo opportunity, magari senza avere niente da dire e da dare, che consente di tutelare il proprio paese. Da sempre l’arte del governo è farsi concavi e convessi, saper incassare per poi restituire anche con gli interessi, ma solo al momento opportuno. Impararlo è indispensabile.

Senza contare, e qui torniamo al benedetto festival di Sanremo, che nella vicenda del vertice orchestrato da Macron senza Meloni ha sicuramente contato lo stato d’animo del presidente ucraino, a dir poco irritato dopo la tiritera sulla sua partecipazione alla kermesse sanremese, compresa l’incredibile pretesa di poter visionare anticipatamente il testo del suo discorso. E l’inquilino dell’Eliseo lo ha fatto chiaramente intendere quando ha detto, nella sua piccata replica a Meloni, che è Zelensky a scegliere il formato dei suoi incontri. Dunque, prima di lamentarsi, sarebbe stato meglio fare un’analisi attenta dei comportamenti italiani, e magari fare ammenda. Poveri noi, se le strade della nostra politica estera e della nostra diplomazia, nel pieno di una guerra che è a due passi dai nostri confini e ha come chiaro obiettivo quello di ridisegnarli, passano da Sanremo.

Io non mi sono stracciato le vesti per la vittoria della destra il 25 settembre scorso, non ho evocato il ritorno del fascismo e ho cercato di osservare senza paraocchi ideologici le mosse del governo Meloni, dando a Giorgia quel che è di Giorgia nell’attribuirle capacità politiche superiori a quelle, modeste, dei suoi alleati e di quasi tutti i suoi oppositori. Ma proprio per questo non mi esimo dall’esprimere preoccupazione per la torsione che sta prendendo l’incedere del governo e di chi lo guida. Tutti dicono che durerà a lungo – anche se in pochi pensano all’intera legislatura – ma soltanto perchè l’opposizione è debole e frantumata, e dunque incapace di proporre un’alternativa. Ma non si cade solo per uno sgambetto altrui, si può anche inciampare nelle proprie stesse gambe. E più è fesso il terreno su cui si cammina – come obiettivamente lo è quello sanremese – e tanto maggiore è la probabilità di farsi male. Specie se nell’incespicare si pretende di insistere anziché ribaricentrarsi.

Per esempio, temo si profili all’orizzonte un inciampo che avrebbe gravi conseguenze, come quello che deriverebbe dall’esprimere insofferenza per la reiterata difesa che il presidente Mattarella fa della Costituzione. Convincersi che si tratti di una vera e propria campagna, scientemente orchestrata, magari d’intesa o addirittura per volere della sinistra, per bloccare sul nascere le riforme costituzionali – e segnatamente l’autonomia regionale e, soprattutto, il presidenzialismo – e cominciare a montarci sopra un controcanto comunicativo, sarebbe come buttare una sigaretta accesa in un pagliaio. Ad essere sincero, a me non è piaciuto l’affidare a Benigni il messaggio, in sè sacrosanto, che sulle riforme che toccano la Carta occorre il concerto anche dell’opposizione. Ma se Meloni vuole dimostrare di essere all’altezza del ruolo che ricopre ed evitare di trasformarsi ben presto nell’ennesima meteora della scena politica italiana, deve lanciare un’idea forte e inclusiva come quella di far affrontare questi temi, compresa l’esasperazione federale proposta da Calderoli e che peraltro al presidente del Consiglio non piace affatto, da un’Assemblea Costituente, non farsi prendere la mano dalla vis polemica.

In questi giorni è stato ricordato l’anniversario dalla morte di Pinuccio Tatarella, che più di tutti aveva coltivato l’ambizione di trasformare la destra post fascista in forza di governo pienamente legittimata, aprendo la strada poi efficacemente percorsa da Gianfranco Fini. Forse sarebbe utile se Meloni si domandasse cosa farebbe, o cosa le consiglierebbe di fare, oggi il compianto Tatarella. Non tanto nel merito delle decisioni da prendere, ma sul piano del metodo. Ne ricaverebbe l’insegnamento della “laboriosa tessitura”, che è l’esatto contrario della “rovinosa disintegrazione”. Vedremo già lunedì, a risultati delle regionali appena sfornati, se nel weekend si sarà riletta Tatarella.

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