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L'editoriale di TerzaRepubblica

Giustizia chiave per Meloni

NORDIO AVRÀ ANCHE COMMESSO QUALCHE INGENUITÀ, MA È DALLA SUA RIFORMA CHE PASSA IL FUTURO DEL GOVERNO

di Enrico Cisnetto - 28 gennaio 2023

Il ministro Nordio ha ecceduto nelle esternazioni? Può darsi. È stato poco accorto nel parlare di intercettazioni proprio quando l’arresto di Messina Denaro dava al fronte giustizialista l’occasione di accusarlo di sottrarsi alla “lotta alla mafia”, cioè al mantra principe della retorica nazionale? Probabile, mai offrire il destro alla strumentalità altrui. Ma quando ben gli si voglia tirare le orecchie per questi peccati di inesperienza politica – e chi in questi giorni lo ha attaccato non gli ha certo rinfacciato l’ingenuità, ma lo ha crocifisso per impedirgli di riformare la giustizia – rimangono sacrosante le ragioni delle sue affermazioni e benedetta la sua volontà di mettere mano alla “malagiustizia”. Anche perché le idee di Nordio si conoscono bene: non ha mancato di esprimerle quando era magistrato – andando controcorrente in un mondo dominato dal “pensiero unico” non meno feroce di quello della politica nel farla pagare ai “non allineati” – e a maggior ragione ne ha fatto oggetto di un’intensa attività editorialistica e saggistica da pensionato. Insomma, Nordio quando è stato nominato ministro era all’esatto opposto della condizione dell’avvocato Conte nel momento in cui fu designato presidente del Consiglio, visto che di lui non si conosceva alcun pensiero, non avendone mai esternato uno (ammesso e non concesso che lo avesse). Tuttavia, per attaccarlo si è attesa la cattura del superlatitante siculo, in modo da potergli imputare la più nefanda delle volontà, o quantomeno la più pericolosa delle conseguenze dei suoi intendimenti, e cioè di intralciare se non impedire il lavoro dell’antimafia.

Diradiamo dunque la nebbia procurata dai fumogeni tirati dagli esponenti del PUG (partito unico della gogna) e facciamo un po’ di chiarezza. La questione giustizia in Italia – ma non solo, se si osserva il comportamento della magistratura belga nella cosiddetta vicenda Qatargate – si articola in tre diversi aspetti. Il primo è quello che riguarda il suo (cattivo) funzionamento, che incide pesantemente sulla vita delle persone: tempi biblici, uso improprio delle intercettazioni (sia per la loro eccessiva quantità, sia per la trasformazione da strumento di indagine a prova, sia per la loro diffusione pubblica a cura del circolo mediatico-giudiziario), equiparazione della figura dell’indagato a condannato, abuso della carcerazione preventiva, inversione dell’onere della prova. Solo per ricordare i principali difetti di un sistema inefficiente, inefficace, distorsivo e in netto contrasto con la certezza del diritto. Una riforma s’impone, sia a tutela dei cittadini, sia per ridurre gli (enormi) effetti negativi che questa situazione infligge alla nostra economia, disincentivando gli investimenti e allontanando gli operatori internazionali dal nostro mercato.

Il secondo aspetto attiene al (disarticolato) equilibrio costituzionalmente dettato dalla separazione dei poteri. È dall’inizio degli anni Novanta che si è prodotta una terribile rottura, a danno tanto del potere politico e dei suoi strumenti (i partiti), quanto dei corretti assetti istituzionali. Guai se si altera il meccanismo che prevede che le norme siano ad appannaggio esclusivo, e senza condizionamento alcuno, del potere legislativo ed esecutivo, mentre quello giudiziario deve limitarsi ad applicarle, a sua volta in assoluta autonomia. Trent’anni fa gli italiani, di fronte al decadimento della politica che non riusciva più a dare risposte alle loro richieste, pensarono che la soluzione fosse un bel repulisti prodotto dalla magistratura, cui peraltro la politica, abdicando ai suoi compiti, aveva già delegato oltre un decennio prima il compito di sconfiggere il terrorismo, ponendo così le premesse per il “sorpasso” nella gerarchia dei poteri. Ma da Tangentopoli a Palamara, ora il paradigma si è rovesciato. La magistratura ha via via perso la credibilità che gli era stata attribuita, sotto il peso del crescere dei casi di custodie cautelari ingiustificate, se non per esercitare pressione sugli indagati, di indagini preliminari accompagnate da clamore mediatico, tenute aperte all’infinito e poi finite nel nulla, così come di condanne rivelatesi ingiuste e ribaltate nel secondo o terzo grado di giudizio. Si è capito che il dogma giustizialista secondo il quale ciascuno di noi è colpevole fino a prova contraria (e anche dopo) era una mannaia che prima o poi ci avrebbe colpito, direttamente o nella cerchia degli affetti e delle amicizie, senza fare sconti. Si è visto che in molti casi le congetture circa l’uso politico delle inchieste (la famosa giustizia ad orologeria) con il senno di poi sono diventate certezze. Un intervento riformatore che rimetta le cose al posto previsto dalla Costituzione – citata a sproposito dal PUG – è fondamentale, come ha ricordato il presidente Mattarella un anno fa nel discorso alle Camere per il suo secondo insediamento al Quirinale parlando di “pressanti esigenze di efficienza e credibilità” della magistratura.

In quell’occasione il Capo dello Stato parlò anche di temi che attengono al terzo aspetto della “questione giustizia”, quello relativo all’organizzazione della magistratura stessa, allorquando Mattarella evocò la necessità di superare “logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’ordine giudiziario”. Il riferimento evidente è alla divisione in correnti dei magistrati e al loro avanzamento professionale in ragione non dei meriti ma dell’appartenenza ad esse, all’uso dell’azione giudiziaria per ragioni politiche e personali, o comunque di potere, alla lottizzazione del Csm e alla sua gestione in funzione di tutela della corporazione. Non è un caso che sempre Mattarella, un paio di giorni fa in occasione dell’insediamento del nuovo Consiglio superiore della magistratura, abbia archiviato la brutta stagione del Csm precedente – su 16 magistrati che ne facevano parte, più di un terzo è stato costretto alle dimissioni perché travolto da scandali e un altro terzo, per le stesse ragioni, le avrebbe dovute dare – parlando di una “consiliatura segnata dai gravi episodi che l’hanno colpita”. C’è chi si è indignato perché, dopo il pentolone scoperchiato dalle rivelazioni (non disinteressate) di Palamara, avrebbe voluto sentire parole più crude. Ma qui il tema non è chi alza di più la voce, ma chi presto e bene mette rimedio. Ed ecco che anche qui una riforma dell’ordinamento giudiziario, a cominciare proprio dal Csm, si rende assolutamente necessaria.

Per tutte queste ragioni ho salutato la scelta di Nordio ministro della Giustizia – fatta in solitario da Giorgia Meloni, con Berlusconi e Salvini che proponevano altri (anzi, altre) – come la migliore possibile. E non in virtù della nostra amicizia personale di lunga data, ma nella convinzione che solo uno con quelle idee e totalmente non ricattabile come è lui, possa portare a termine, delle riforme che sono necessarie all’Italia, quella di più difficile realizzazione, in un paese in cui anche il più piccolo cambiamento è comunque complicato da mettere in atto. Tanto più dopo il “tradimento” degli italiani, che dopo aver fatto ben sperare firmando in gran numero per i cinque referendum sulla giustizia voluti dai radicali, hanno poi disertato le urne, nel giugno scorso, producendo una grande occasione mancata perché il loro pronunciamento avrebbe facilitato una riforma organica della giustizia, in tutti i tre aspetti di cui vi ho parlato.

Ora si vedrà se ci saranno le condizioni politiche perché Nordio riesca in questa impresa. Vedremo se Meloni – che quando l’ha scelto sapeva benissimo a cosa andasse incontro – avrà la tempra politica di sostenerlo fino in fondo. Vedremo se la maggioranza terrà o se, come certe uscite fanno già temere, spingerà il ministro e la sua riforma nelle sabbie mobili dei distinguo, dalle quali è impossibile uscire. E vedremo se, celebrato il suo inutile congresso, il Pd o la parte riformista e garantista di esso troverà la forza di evitare chiusure pregiudiziali, sottraendosi alla “attrazione fatale” di fare sponda al PUG (che avrebbe come corollario politico generale un’ottima cosa, sfuggire all’abbraccio mortale dei 5stelle). Il fatto che gli avversari di Nordio lo abbiano accusato di voler disarmare i “professionisti del bene” (copyright Alessandro Barbano) nella lotta alla mafia, nonostante che  il ministro, dopo qualche parola di troppo, abbia riconfermato la necessità dell’uso delle intercettazioni nella lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo, mi fa temere il peggio.

E se così fosse, il rischio che corriamo è di lasciare irrisolte per l’eternità le mille storture della cattiva giustizia, dal disequilibrio tra politica e magistratura allo scandalo della carcerazione preventiva usata come metodo d’indagine giudiziaria, dalla degenerazione corporativa della rappresentanza dei magistrati alla lottizzazione dei posti nel Csm e il suo conseguente malfunzionamento, dalle indagini accompagnate da clamore mediatico tenute aperte all’infinito per poi finire nel nulla alla intollerabile quantità di condanne rivelatesi ingiuste e ribaltate nel secondo o terzo grado di giudizio, ma molto tempo dopo e quando ormai la riprovazione morale ha già lasciato il suo indelebile segno. Un rischio drammaticamente troppo alto. Per questo occorre tifare per Nordio.

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