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L'editoriale di TerzaRepubblica

Meloni e i conti col passato

PIÙ CHE CON IL FASCISMO, MELONI DEVE CHIUDERE LA STAGIONE 92-94 CON UN’ASSEMBLEA COSTITUENTE

di Enrico Cisnetto - 29 ottobre 2022

Nel momento in cui il primo governo di destra della storia repubblicana è nella pienezza dei suoi poteri avendo ottenuto la fiducia del Parlamento, momento che per un beffardo destino coincide con i cento anni da quella marcia su Roma che portò Benito Mussolini ad aprire la lunga e dolorosa pagina fascista della nostra storia, si chiede a Giorgia Meloni di fare i conti con il passato. Con ciò aprendo una discussione pubblica, spesso dai toni polemici e preludio di comportamenti violenti (vedi gli studenti romani), che non serve ad affrontare gli immensi problemi di oggi, alla quale mi sottraggo più che volentieri facendo mio il giudizio di Sabino Cassese: lasciamoci alle spalle la dicotomia fascismo-antifascismo perché la forza di 75 anni di democrazia sta anche nell’aver abituato alla democrazia coloro che hanno le loro antiche radici in un regime autoritario.

A me basterebbe che il presidente del Consiglio – cui già si chiede, chi con speranza (anche da parte di coloro che non l’hanno votata) chi con arroganza intellettuale, di vestire i panni del “salvatore della patria si bella e perduta” caricandosi il Belpaese sulle spalle – facesse i conti con la sua cultura politica, domandosi se il suo bagaglio è all’altezza delle tremende sfide che abbiamo di fronte. E se il suo mondo è in grado di dar vita ad un moderno partito conservatore, di stampo liberale ed europeo, che al momento non è. Corrado Augias declina questa richiesta, con parole oppositive ma elegantemente esenti da derive ideologiche, in chiave culturale, incitando Meloni a depurare i suoi ripetuti riferimenti al concetto di “nazione” dalla patologia del “nazionalismo”, sia d’antan come preludio del fascismo, sia nel più attuale approdo “sovranista”. Io, più prosaicamente, mi accontento di chiederle di fare i conti – mai fatti da nessuno – con gli ultimi trent’anni della nostra storia, che peraltro coincidono con il suo ormai trentennale impegno politico (come me ha iniziato a fare politica a 15 anni, con la differenza che nel mio caso era il 1970). E il fare questo esercizio, è premessa per poter rispondere con cognizione di causa alle tante richieste che a Meloni vengono rivolte di dare dimostrazione di aver abbandonato i panni nazional-populisti di un tempo. Cosa che ha già fatto in politica estera – non fino in fondo, ma in questo è aiutata dai i suoi due compagni di strada, Bibì Vladimir Salvini e Bibò Berlusconzulli, che per differenza le consentono di fare bella figura – e che dovrà dimostrare di saper fare in economia e su molte altre questioni della vita pubblica.

In questo tempo malato di “presentismo”, ogni nuovo governo afferma ossessivamente di voler marcare una radicale discontinuità con quello precedente, persino quando, come nel caso dell’ineffabile avvocato Conte, è lo stesso primo ministro a guidare due esecutivi di maggioranze diverse. Nessuno si è ancora posto il problema di voler produrre una vera discontinuità con quella che, per colpa della maledetta semplificazione mediatica, abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica. Con la stortura che l’ha originata – la forzatura giudiziaria chiamata Mani Pulite (un nome che, rileggendo la storia personale dei magistrati che l’hanno incarnata, fa ridere e piangere allo stesso tempo) – e con le storture, anche istituzionali oltre che politiche e culturali, che ha prodotto. Se è vero, come è vero, che dal 1992 in poi si è aperta e mai chiusa una fase di transizione verso una non definita, se non per slogan, nuova Repubblica, allora Giorgia Meloni ha davanti a sé due alternative: il cambiamento whatever it takes o quello finto, posticcio. Nel primo caso potrà anche sbagliare (e ricevere le critiche anche da chi, come me, non ha pregiudizi), ma sicuramente entrerà nei libri di storia per un motivo ben più rilevante – non me ne vogliano le mie lettrici – che essere la prima donna a sedere sullo scranno di palazzo Chigi; nel secondo caso, resterà inchiodata alla cronaca e il suo tempo finirà presto come quello di tutti i suoi predecessori e avversari, il cui consenso si è velocemente consumato per colpa di promesse irrealizzate (e irrealizzabili) e di una popolarità effimera, creata mediaticamente nonostante la loro assoluta inconsistenza e le molte contraddizioni (anche e soprattutto nei comportamenti privati).

Ovviamente io auspico che la già dimostrata grinta politica e personale e la sua indubbia vocazione alla leadership inducano il primo ministro a scegliere la prima opzione. Potrà forse sembrare velleitario che la giovane leader di fronte ad un passaggio tra i più difficili della nostra storia – “siamo nel pieno di una tempesta”, ha detto lei stessa nelle dichiarazioni programmatiche – stante anche l’inesperienza nel governare, scelga di alzare il tiro dell’ambizione. Capisco l’obiezione, ma osservo tre cose. La prima: è proprio la sua dimensione politica a 360 gradi, tanto sottolineata, a metterla in condizione e doverla indurre a questa alzata di tiro. La seconda: il fermarsi a governare qui e ora, senza tener conto che molte cose nell’esercizio del governare i problemi odierni le sono rese difficili o addirittura precluse proprio per i nodi politico-istituzionali a monte mai sciolti, significa combattere con le mani legate dietro la schiena, con probabilità di sconfitta assai alte. La terza: evocando una trasformazione in senso presidenziale della Repubblica, il presidente del Consiglio ha già detto di volersi avventurare sul terreno delle riforme costituzionali, che sono appunto lo strumento principe per chiudere la transizione infinita che dura da tre decenni.

Naturalmente essere a favore del riassetto istituzionale del Paese (pardon, della Nazione) non significa per forza essere tifosi del presidenzialismo – del quale peraltro esistono varie forme, da quella piena americana a quella “semi” francese fino all’elezione diretta del presidente del Consiglio che propone Renzi – e io infatti non lo sono (qui Cassese, che parla di “presidenzialismo utile alla stabilità”, non mi convince). La vera questione sta nel fatto che in questi trent’anni la Costituzione è stata scassata dalla disarticolazione del rapporto tra potere politico e potere giudiziario; dall’intossicazione prodotta da leggi elettorali pessime – e che comunque avrebbero richiesto, nel passaggio dal proporzionale al maggioritario (imbastardito dal premio di maggioranza), altre riforme istituzionali – abbinate all’affermarsi dei partiti personali e del leaderismo che trasferisce il consenso dalle idee alle persone; dalla disgraziata riforma del titolo V che ha prodotto un federalismo straccione; dai perniciosi tentativi, per fortuna sventati dai cittadini nei referendum confermativi, di riformare la Carta a colpi di maggioranza anziché in un contesto condiviso, brandendo le riforme come arma nucleare nella guerra del bipolarismo militarizzato.

Ma se tutto questo è causa e conseguenza della transizione trentennale mai chiusa – oltre che all’origine di quel “non governo” che è il motivo vero del fin qui inarrestabile declino italico – la risposta non può venire né dal Governo né dal Parlamento. Per questo, cara Meloni, la vera “rupture” sta nel proporre una modalità costituente per porre rimedio a tutto questo e chiudere finalmente la transizione infinita. Un’Assemblea deliberante composta da un centinaio di membri eletti in un unico collegio nazionale con il sistema proporzionale puro, incompatibili con il ruolo di parlamentari, e arricchita da una ventina di esperti nominati dal Capo dello Stato, che chiuda in un anno i suoi lavori (sistema elettorale compreso, che va costituzionalizzato e reso omogeneo per tutti i livelli della rappresentanza e per tutto il territorio). Chi, se non ai vincitori, tocca proporlo? Sgombrando il campo dalle polemiche sulle intenzioni, vere o presunte che siano, di voler forzare la mano forti di una maggioranza parlamentare che, proprio in virtù delle distorsioni che si devono correggere, non è maggioranza nel Paese (così come nessuna coalizione vincitrice delle elezioni di questi ultimi tre decenni è mai stata).

Nel chiedere la fiducia a Camera e Senato, l’onorevole Meloni ha delineato un orizzonte decennale in cui collocarsi. Non saranno solo la risposta alla crisi energetica con le sue maxi bollette, la lotta all’inflazione e la postura assunta nell’ambito della guerra scatenata da Mosca – che pure sono questioni dirimenti – a dirci se si tratta di un’ambizione fondata o di un’illusione. Sarà anche la capacità di capire qual è la vera dimensione del cambiamento radicale che senza dubbio occorre dare all’Italia. Se Meloni ci riuscirà, nell’impresa, non lo so. Posso solo sperarlo. Ciò che temo che glielo possa impedire, più di ogni altra cosa, è quello che potremmo chiamare “il rigurgito”. Pensare che la storica emarginazione politica di cui si sente vittima sia stata figlia di “poteri forti” che ora, battuti dal risultato elettorale a lei favorevole, la vogliano “circuire”. A farglielo credere il suo mondo antico, che di isolamento ha campato, intellettualmente e materialmente. Ci hanno già provato, sgangheratamente, Marcello Veneziani, secondo cui “obiettivo del Palazzo è una Meloni Ogm che somiglia Draghi”, e in modo più sofisticato Franco Cardini, per il quale la squadra di governo messa insieme dal neo primo ministro è pensata per piacere all’establishment, pervasa da “ansia di legittimazione”. Era già successo a Gianni Alemanno una volta arrivato a fare il mestiere più difficile d’Italia, che è amministrare Roma. Vedremo se Giorgia Meloni saprà fare tesoro di quella esperienza.

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