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L'editoriale di Terza Repubblica

Tutte le sorprese del voto

ECCO TUTTE LE SORPRESE (BUONE E CATTIVE) CHE POTRANNO USCIRE DALLE URNE E DOPO IL VOTO

di Enrico Cisnetto - 23 settembre 2022

Preparatevi a un po’ di colpi di scena. Questa campagna elettorale non solo è stata pessima nei contenuti e deprimente nella modalità, ma anche molto noiosa, per via di pronostici che ne hanno reso prevedibile l’esito, come un libro giallo che svela il nome dell’assassino già alla prima pagina. Mi sbaglierò – e nel caso farò pubblica ammenda – ma ho sempre avuto l’impressione, e a maggior ragione ce l’ho oggi alla vigilia del voto, che invece il romanzaccio della politica italiana sia pronto a riservarci molte sorprese. Che usciranno direttamente dalle urne, ma anche e soprattutto da quel che accadrà subito dopo le elezioni. E provare ad antivederle, queste sorprese, può sia indurre chi ha delle certezze su cosa fare domenica (beati loro) a farsi qualche domanda, sia aiutare chi è ancora incerto a decidere se andare ai seggi e, nel caso, scegliere chi votare. Provo a schematizzare informazioni e ragionamenti.

1) Da quando nei giorni scorsi è scattata la cosiddetta “tagliola”, cioè la regola (assurda) che vieta la pubblicazione di sondaggi nelle ultime due settimane prima del voto, nella Roma affamata di indiscrezioni su quel che succederà è cominciata a circolare sotto traccia una quantità industriale di ricerche demoscopiche, vere e tarocche, attendibili e fasulle. Al di là del malcostume, che Antonio Polito ha giustamente fustigato sul Corriere della Sera, il fatto che i numeri riportati per ciascun partito siano significativamente diversi l’uno dall’altro, ben oltre la classica forchetta di quattro punti, la dice lunga sulla capacità divinatoria dei sondaggi. Di conseguenza, evitiamo di farcene condizionare al momento del voto. D’altra parte, non sarebbe la prima volta che le urne smentiscono le previsioni della vigilia.

2) Si continua a ragionare sulle percentuali di voto, mentre la cosa più importante è l’attribuzione dei seggi. E per effetto dei complicati marchingegni della legge elettorale, per di più con modalità di conteggio diverse tra Camera e Senato, non è detto che le due cose – percentuali e seggi – vadano di pari passo. Per esempio, un 10% concentrato territorialmente può rendere in termini di numero di parlamentari più di un 15% equamente spalmato su tutto il territorio nazionale. Questo vale soprattutto per i seggi assegnati con il sistema maggioritario (uninominale), che ammontano (escludendo dal calcolo i parlamentari eletti all’estero) a 147 deputati su 392 e a 74 senatori su 196.

3) Finora, l’ipotesi che la maggioranza assoluta dei seggi toccherà alla coalizione di destra-centro (cominciamo a chiamare le cose con il loro vero nome), sondaggi a parte, è derivata da un dato incontrovertibile, e cioè che sul fronte opposto la coalizione non c’è, anzi ci sono tre forze in competizione tra loro. E che, di conseguenza la gran parte dei collegi uninominali, dove basta un voto in più per vincere, non può che andare a chi si presenta unito.

4) Nel concreto, se è vero, come molte evidenze ci dicono, che i 5stelle stiano recuperando una parte del consenso del 2018 che sembravano aver perduto e se è altresì fondata l’ipotesi che tale recupero si stia concentrando al Sud – cosa fondata nella misura in cui per lo più si tratta di un “voto di scambio legalizzato” derivante dai percettori del reddito di cittadinanza, appunto concentrati in alcune zone del Meridione, e i loro nuclei famigliari – ne deriva che su una parte di quel 37% di seggi che sarà assegnato con l’uninominale l’avvocato Conte più competitivo di quanto non si sia fin qui immaginato. A scapito del destra-centro.

5) È difficile dire con esattezza di quanti seggi stiamo parlando, ma una cosa potremmo dare per acquisita: mentre alla Camera lo spostamento non inciderà sul risultato finale, al Senato – la cui base di calcolo è regionale – l’effetto potrebbe essere significativo. Naturalmente molto dipenderà da quanto Giorgia Meloni e alleati prenderanno al proporzionale: più sarà alta la percentuale, meno servirà all’apporto della quota uninominale. Per esempio, se la somma facesse 42%, al maggioritario dovrebbe conquistare almeno il 65% dei seggi (cioè 48 su 74 al Senato) per avere la maggioranza. Ma sarebbe risicata, e quindi fragile. Mentre per essere al riparo dalle transumanze parlamentari sempre in agguato, al Senato la maggioranza deve raggiungere quota 115-120 (su 200, non contando i senatori a vita). Il che significherebbe conquistare oltre l’80% dei 74 seggi uninominali. E al Sud ci sono 31 di quei 74 collegi. Ora, la remontada di Conte, supponendo che sul piano nazionale lo attesti al 17-18% dei voti, ma concentrati da Roma in giù (nel 2018 al Sud prese il 43% dei voti e conquistò l’83% dei seggi), è difficile – ma non impossibile – che metta in minoranza il destra-centro (sempre di Senato stiamo parlando, ma è lì che si gioca la partita vera). Tuttavia, può ridurgli da comoda a ristretta la maggioranza. Con tutto quel che può significare sul piano degli equilibri parlamentari.

6) Il significato politico di una tale circostanza è evidente: Conte potrà dire di aver salvato il movimento ormai ex grillino, potrà intestarsi il ridimensionamento (parziale o totale) del destra-centro e, consigliato dal suo amico Massimo D’Alema, potrà mettere in difficoltà Enrico Letta, specie se il risultato del Pd dovesse rivelarsi deludente e comunque non distante da quello dei 5stelle. Questo spingerà le componenti del Pd da sempre in sintonia con Conte e che hanno maldigerito il mancato accordo elettorale con i 5stelle, ad aprire un fronte di immediato raccordo politico-parlamentare con l’avvocato del popolo, costringendo Letta a scegliere tra l’abdicazione a favore di una linea politica non sua o la resa, con relative dimissioni. È presto ora per dire cosa accadrà, ma è possibile che tra le sorprese del dopo elezioni ci sia anche una frattura tra le due anime dei Democratici, con una aggregazione a sinistra (butto lì un po’ di nomi: Conte, D’Alema, Bersani, Fratoianni, Bettini, Orlando, forse Zingaretti, ma anche Landini e Santoro) e un’altra riformista che metta insieme la parte più moderata del Pd con il duo Calenda-Renzi e i tanti fuoriusciti (vedrete quanti…) da Forza Italia. Scenario che non si verificherebbe, o comunque avrebbe tempi lunghi e una gestazione molto complessa, se invece i 5stelle stessero ben sotto il 15% e il Pd ben sopra il 20%.

7) La scena del comizio unitario di Meloni, Salvini e Berlusconi nella romana piazza del Popolo non tragga in inganno, quella del destra-centro è solo una coalizione elettorale, che ha retto faticosamente alle forzature della propaganda ma che non potrà trasformarsi in una duratura coalizione politica. Lo rendono impossibile la palese diversità di vedute su quasi tutti i temi dell’agenda politica, l’incompatibilità assoluta dei due leader maggiori e l’ormai evidente inconsistenza del terzo (diciamo per ragioni anagrafiche, giusto per evitare polemiche). Ma soprattutto, a fare da discrimine c’è la posizione su Putin e il sostegno (anche militare) all’Ucraina da parte di Salvini e di Berlusconi (delirante l’ultima uscita sull’argomento), che Meloni, salvo suicidarsi prima ancora di cimentarsi al governo, non potrà avallare e che comunque troverà nel presidente della Repubblica una barriera insormontabile. Così come l’Europa non potrà chiedere conto alla leader di FdI del suo rapporto con Orban, che pone da un lato un tema di concezione della democrazia, e dall’altro di che ruolo intende avere l’Italia nel contesto comunitario: è il terzo lato dell’asse franco-tedesco, o entra nella banda di Visegrád?

8) Ma c’è un altro fattore, fin qui non considerato dagli osservatori, che agiterà le acque nel destra-centro. L’accordo sottoscritto al momento della formazione del cartello elettorale, ha previsto una partizione dei seggi “sicuri” (lo so che è brutto da dirsi, ma purtroppo quella schifezza di legge elettorale che abbiamo consente, anzi implica, questa spartizione decisa a tavolino dai capi partito) basata su una previsione di rapporti di forza che probabilmente le urne non confermeranno. Nel senso che FdI avrà più voti del previsto, mentre Lega e Forza Italia meno, o forse anche decisamente meno. Ergo, la Meloni risulterà sottorappresentata e gli altri due sovra rappresentati. E questo fatto non potrà che aggiungere fibrillazione a fibrillazioni, favorendo il passaggio da un fronte all’altro dei parlamentari eletti. Senza contare che se tutto questo si verificasse, significherebbe che Salvini e Berlusconi avrebbero registrato un risultato politico deludente, e che, di conseguenza, potrebbero aprirsi due fronti sanguinosi: la resa dei conti nella Lega e la grande fuga da Forza Italia. Casino nel casino.

9) Ultimo elemento di valutazione riguarda il cosiddetto Terzo Polo. I lettori di TerzaRepubblica sanno da quanto tempo predico la necessità di un polo terzo nel senso non solo di non schierato né a destra né a sinistra, ma anche di radicale contestatore del bipolarismo italico. Dunque, per essere credibile chi si fregia di questo titolo non può diventare tale all’ultimo momento solo perché non è riuscito (poco importa di chi è la colpa) a fare gli accordi giusti con una delle due parti in gioco. Purtroppo, invece, questa è la storia del duo Calenda-Renzi, matrimonio dell’ultima ora tra due che si odiano e che faranno un’enorme fatica a restare insieme, anche se avranno, come è probabile, un buon successo. Detto questo, è fallace l’obiezione che si fa comunemente circa il fatto che il consenso dato a loro è un “voto inutile”. Sia perché non essendoci più il bipolarismo viene meno l’assunto, e sia perché per tutte le ragioni che ho esposto fin qui è alta la probabilità che il 26 settembre ci si presenti uno scenario a dir poco complicato e che in quel contesto una forza intermedia potrà risultare preziosa.

Scrivevo il 2 marzo del 2018, alla viglia delle scorse elezioni politiche: “La campagna elettorale è stata pessima. Anzi, paradossale, con i partiti che hanno fatto a gara a chi promette di più in un clima di assoluto scetticismo e generale indifferenza che ha reso quelle lusinghe inutili se non addirittura controproducenti. Lo spettacolo di liste di candidati piene di mezze figure e di dilettanti allo sbaraglio è stato a dir poco indecoroso. La sensazione più diffusa nel paese è che l’esercizio del voto, complice una legge elettorale maledetta, sia inutile…”. Quattro anni e mezzo dopo non ho da cambiare una virgola, salvo considerare che al peggio non c’è mai fine e che il passare del tempo ha aggravato la crisi del nostro sistema politico e istituzionale. Tema nodale su cui l’imbarazzante silenzio generale è stato rotto solo dalle voci di due Grandi Vecchi, entrambi presidenti emeriti della Corte Costituzionale, Giuliano Amato e Sabino Cassese: il primo ha definito la nostra “una democrazia malata, che certo non possiamo curare con l’autoritarismo”, e il secondo ha denunciato la perniciosità della legge elettorale con cui voteremo, che “ha introdotto nel nostro ordinamento una  formula sbagliata che costringe le forze politiche sia a competere sia a cooperare, con i risultati schizofrenici che sono sotto gli occhi di tutti”.

Capisco, cari lettori, che di fronte alla cruda verità di queste parole possiate avere la voglia, domenica, di restare a casa. Ma non risolvereste niente. Il nostro paese è in seria difficoltà, e la guerra e le sue varie conseguenze non potranno che aggravarla nei prossimi mesi. È dunque necessario sforzarsi di fare una scelta. Quale non spetta a me dirlo. Posso solo richiamare alla vostra memoria le analisi che qui vi ho offerto e consigliarvi di evitare estremisti, populisti, sovranisti-nazionalisti, giustizialisti. Si dirà: ma così non ci rimane nessuno. In effetti… Ma forse, applicando la regola del “meno peggio”, qualcosina si trova. Buon voto.

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