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L'editoriale di TerzaRepubblica

I fattori Putin e Orban sul voto

PER IL CENTRO-DESTRA LE MALEDIZIONI DEI FATTORI PUTIN E ORBAN. PESERANNO IL 25? FORSE. IL 26? SICURO

di Enrico Cisnetto - 16 settembre 2022

Come volevasi dimostrare. È da quando la Russia ha deciso di attaccare militarmente l’Ucraina, con l’obiettivo molto più alto e pericoloso di dividere l’Europa e sovvertire l’ordine mondiale, portandoci dunque la guerra alle porte di casa, che ho cercato di dire che il “fattore P”, inteso come Vladimir Putin, ma anche come “politica estera”, avrebbe sconvolto la politica italiana. Poi una campagna elettorale idiota, spesa a parlar d’altro, ha fatto credere agli stolti che la partita si giochi su altri piani. Può darsi che sarà così domenica 25, perchè gli italiani metteranno nelle urne prima di tutto le loro rabbie e le loro paure, e in una certa misura finiranno per farsi attrarre, pur disprezzandolo, dal “teatrino della politica”, non fosse altro per poter partecipare al sempiterno gioco degli odii incrociati. Ma non sarà così a partire dal giorno dopo, quando entreranno in campo i veri fattori che condizionano la politica. Ora, a ricordarcelo, a poco più di una settimana dalle elezioni, arrivano tre autentiche bombe nucleari. La prima: le informazioni riservate dell’intelligence americana, contenute in vari dossier che il Dipartimento di Stato Usa ha cominciato (anzi, appena cominciato) a mettere in circolazione attraverso un documento classificato come “sensitive” (cioè contenente informazioni importanti) ma non come “classified”, dunque non da tenere strettamente riservato, circa finanziamenti di Mosca a partiti ed esponenti politici – mai direttamente, ma attraverso intermediari e con la copertura di strutture parallele – di diversi paesi occidentali, tra cui ovviamente l’Italia. La seconda bomba: la reazione di Mario Draghi al rischio di sputtanamento internazionale dell’Italia. Il presidente del Consiglio ci è andato giù durissimo: “La democrazia italiana è forte, non si fa battere da nemici esterni e dai loro pupazzi prezzolati. È chiaro che negli ultimi venti anni la Russia ha effettuato una sistematica opera di corruzione negli affari, stampa e politica in molti paesi Ue e negli Usa”, invitando a distinguere tra chi “vuole togliere le sanzioni e parla di nascosto con i russi” e chi non lo fa. E infine: “nei rapporti internazionali bisogna essere trasparenti. Ci vuole coerenza, non giravolte per cui si vota l’invio delle armi e poi si dice non sono d’accordo”. Una sortita che, credo, non lascerà indifferenti i tanti italiani che domenica prossima voteranno ricordando con quanto avversione avessero giudicato la prematura caduta del governo.

Infine la terza bomba: il voto a larga maggioranza (433 contro 123) dell’Europarlamento contro l’Ungheria di Orban, definita non più una democrazia e bollata come una “minaccia sistemica” per i valori fondanti dell’Unione Europea in virtù di un “regime ibrido di autocrazia elettorale”, altrimenti detto “democratura”; voto che ha visto tra i contrari gli europarlamentari italiani di Lega e Fratelli d’Italia che militano rispettivamente in Identità e Democrazia (ID) e nei Conservatori-Riformisti Europei (ECR).

Ora, non ci volevano certo i servizi segreti americani per scoprire che ci sono attività russe tese a influenzare governi, partiti, uomini politici di mezzo mondo – e magari nel contempo irrobustire conti correnti cifrati in qualche paradiso fiscale, riconducibili allo stesso Putin, agli oligarchi suoi amici e a qualche funzionario moscovita che non si vuol far scappare le briciole – e nello stesso tempo neppure serve andare alla caccia dei dettagli più scabrosi per rendersi conto di chi in questi anni è stato dalla parte di Putin e chi ci sta tuttora nonostante il criminale attacco a Kiev. Per quanto mi riguarda, è stato sufficiente vedere magliette e felpe di Salvini e ascoltare i suoi pelosi distinguo sulla guerra per capire in quale territorio, soldi o non soldi poco importa, ha portato e mantiene (finchè qualcuno si deciderà a ribellarsi, e sarà sempre troppo tardi) la Lega (che quando è nata i sostegni li prendeva dall’occidentale Baviera). Una volta tanto sono d’accordo con Giuliano Ferrara: non è una questione, è politica pura.

Tuttavia, la mossa la mossa di Washington ha due significati importanti. Il primo: l’Occidente è in guerra con Putin, seppure per il tramite degli ucraini, ed è bene che si sappia “chi sta con chi”, specie laddove, come in Italia, i cittadini sono chiamati a scegliere i propri rappresentanti. Di qui la tempistica, certamente non casuale, rispetto al voto del 25 settembre. Ma, ripeto, fanno un po’ ridere, o destano sospetto, coloro che in queste ore s’impalcano a pretendere che gli Stati Uniti ci dicano tutto quello che sanno: ce n’è più che abbastanza di quello che sta alla luce del sole per capire e giudicare, il resto è prurigine. Il secondo significato è: attenti a che governo fate e a chi ci mettete dentro, dopo le elezioni. Anche qui, è già partita la canea: ingerenza, intollerabile tentativo di condizionamento, attentato alla sovranità popolare. Sciocchezze. La verità è molto più semplice: cari italiani, nessuno vi impedisce di votare i sovranisti, coloro che vi hanno detto che la colpa della guerra sta nell’espansionismo della Nato, che “condannano” l’invasione russa ma non vogliono dare agli ucraini nemmeno una cerbottana per difendersi; ma siccome esiste una solidarietà atlantica e siamo in guerra, dovete essere coscienti che se queste forze dovessero prendere in mano l’Italia o comunque avere influenza nelle scelte di governo, le nostre strade si divideranno, con tutto quel che comporta.

Chi c’è, politicamente parlando, nella “lista nera”? Sicuramente la Lega di Salvini, i mondi alla sinistra del Pd (ma anche qualche componente dei Democratici), gli svalvolati di Paragone. Né sfugge alla memoria (e, immagino neppure ai dossier dell’intelligence) il rapporto di amicizia e di affari di Silvio Berlusconi con il nemico del Cremlino, che di sicuro le ambigue e ondivaghe prese di posizione sulla guerra del Cavaliere in questi mesi hanno fatto dimenticare. Quanto ai 5stelle, ci ha pensato Trump con l’endorsement elettorale di qualche giorno fa al suo amico Giuseppe (stavolta neppure storpiato) a ricordarci involontariamente quali mani Conte abbia stretto, e quelle del duo Donald-Vladimir sono certamente tra quante lasciano più germi. Infine, capitolo a parte per il partito della Meloni. Che si definisce atlantista senza se e senza ma, e che in effetti oltre Atlantico gode di qualche simpatia, naturalmente molto più se non esclusivamente sulla sponda repubblicana. E comunque nessuno mette in dubbio che nella partita della guerra sia stata dalla parte giusta, tanto più se la si paragona ai suoi due alleati col colbacco. Ma per colei che viene da mesi indicata (frettolosamente?) la prima presidente del Consiglio donna, i problemi sono molti più continentali che atlantici. Come dimostra il passo falso del voto su Orban.

La Meloni ha compito un errore da matita blu: aveva l’occasione di tacitare le due obiezioni politicamente più rilevanti che le si possono sollevare, quella di non essere né pienamente democratica né sinceramente europeista, e l’ha mancata clamorosamente consentendo che il suo gruppo al Parlamento europeo votasse in difesa del leader ungherese. Un’amicizia, quella con Orban – ormai ai margini dell’Europa, da cui non è ancora stato sbattuto fuori solo per paura che si schieri apertamente (ma non lo è già, di fatto?) con Putin – che rischia di causarle gravi problemi, forse anche alle elezioni ma sicuramente un minuto dopo. Lei ha giocato la carta della lealtà per giustificare la scelta di Strasburgo, ma la lealtà primaria che doveva dimostrare, specie dopo aver passato anni a predicare il verbo nazionalista e aver criticato l’Europa ogni piè sospinto, è quella alla Ue. Tanto più quando in discussione ci sono i valori fondanti della democrazia e della libertà. Non è un caso che Berlusconi (o qualche suo ventriloquo) abbia colto al balzo la ghiotta occasione di recuperare qualcuno dei tanti punti persi con il suo filo-putinismo e per aver partecipato alla congiura che ha fatto cadere il governo Draghi e liquidato in anticipo la legislatura in un momento delicatissimo, per annunciare solenne che lui si farà garante di un governo esclusivamente europeista e che “se questi signori nostri alleati dovessero andare in direzioni diverse, noi non staremmo nel governo”. Inoltre, la leader di Fratelli d’Italia ha perso la possibilità, politicamente ed elettoralmente ghiotta, di scaricare tutto il peso della scelta pro-Orban e anti-Ue sulle spalle di Salvini, cioè di quello che oggi è il suo vero nemico politico (e forse unico, se dopo il voto si concretizzerà un asse Meloni-Letta, di cui i lettori di TerzaRepubblica sanno ormai da qualche mese). Insomma, se per Salvini e Berlusconi pesa il “fattore P”, Meloni d’ora in avanti dovrà fare i conti con il “fattore O”.

In tutti i casi dal frullatore internazionale ne sta uscendo tritato il centro-destra, più di quanto già non lo fosse sulle questioni interne e, soprattutto, sul piano dei rapporti personali dei leader. A questo punto gli scenari possono essere due: 1) per effetto di queste vicende la tanto pronosticata vittoria a mani basse della destra non si verifica. Tenderei ad escludere a favore di un risultato rovesciato, anche perchè per avverarsi abbisognerebbe non solo di buoni risultati di Pd, 5stelle e Terzo Polo ma anche di un’alleanza che li sommi. Impossibile. Più facile a favore di un “pareggio” che avrebbe come conseguenza un qualche rimescolamento di carte (pronostico un ruolo di prim’attore di Renzi nel cucire alleanze trasversali); 2) il centro-destra vince comunque, seppure senza dilagare (il che vuol dire che la maggioranza al Senato è stretta). Ma con due ipotesi opposte: la prima è che nonostante l’errore su Orban la Meloni ottiene un risultato superlativo (diciamo intorno al 30%) a scapito dei due alleati, la seconda è che invece pur essendo davanti FdI, ci sia un certo equilibrio con Lega e Forza Italia. Pur trattandosi di due scenari assai diversi, questi sui pesi dentro il centro-destra, alla fine portano ad una medesima conclusione: sarà complicatissimo fare un governo, e quand’anche, sarà impossibile tenerlo in piedi (tempo massimo 6 mesi-1 anno).

Naturalmente, non oso pensare ai problemi del Paese…

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