ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Referendum, appello a votare cinque sì

SU GIUSTIZIA E MAGISTRATURA IL GIUDIZIO DEGLI ITALIANI È CAMBIATO. I REFERENDUM DEL 12 GIUGNO LO DIMOSTRERANNO

di Enrico Cisnetto - 03 giugno 2022

Domenica 12 giugno si svolgeranno i referendum sulla giustizia. Io a suo tempo ho contribuito con la mia firma alla raccolta delle adesioni necessarie per attivare la consultazione referendaria, dunque a maggior ragione adesso mi recherò alle urne. E così come a luglio dell’anno scorso sollecitai voi lettori di TerzaRepubblica a firmare, con altrettanto calore vi invito ora ad andare ai seggi. Dissi allora che avevo firmato per tutti e sei i quesiti referendari, e di averlo fatto senza averne particolarmente approfondito i contenuti, convinto com’ero che la mia fosse una scelta politica, al cospetto della quale i dettagli tecnici, peraltro complessi quando non astrusi, mi apparivano del tutto secondari. Allo stesso modo ora voterò convintamente cinque Sì – nel frattempo uno dei sei referendum è stato bocciato dalla Corte Costituzionale – sulla base di un’unica considerazione: sulla giustizia c’è bisogno di voltare pagina in modo radicale, come peraltro ci chiede l’Europa, alla cui realizzazione ha deciso di subordinare l’erogazione dei fondi del Recovery.

Sono consapevole che lo strumento del referendum abrogativo è per definizione monco, e dunque richiede l’intervento riformatore del legislatore. Ma anche e proprio a questo servono davvero i referendum del 12 giugno: far sentire a forze politiche, parlamento e governo, che i cittadini italiani hanno maturato la convinzione che sia indispensabile e indifferibile una riforma organica della giustizia, civile e penale. Poi, certo, i singoli quesiti riguardano l’abolizione della legge Severino, la limitazione dei casi in cui possono essere inflitte le misure cautelari di carcerazione preventiva, la separazione delle carriere tra chi esercita la funzione requirente e chi quella giudicante, il giudizio di avvocati e professori universitari sulla professionalità dei magistrati e la limitazione del ruolo delle correnti nella formazione del Csm. Ma quello che conta è il voto nel suo insieme, cioè il messaggio politico che uscirà dalle urne. 

E a questo fine è relativamente importante che venga raggiunto il quorum. Sì, avete capito bene: se la cosa che davvero conta è la forza del messaggio che gli italiani sapranno dare, meglio una quantità di votanti sotto soglia (ma non troppo, diciamo non meno del 40%) e una schiacciante prevalenza di Sì piuttosto che raggiungere il 50% più uno ma ritrovarsi una notevole mole di No o, peggio ancora, che superino i Sì. Datemi retta, non vi perdete nei meandri dei singoli quesiti, non vi fate spaventare dai loro tecnicismi. Non ne vale la pena. Dovete solo rispondere a voi stessi a questa semplice domanda: la giustizia in Italia è complessivamente gestita bene, e non merita che i legislatori ci debbano mettere mano, o è definibile, come io credo, “malagiustizia” e abbisogna di una riforma strutturale? Se sarete più inclini – per conoscenza personale, per esperienza vissuta da vicino o semplicemente per quanto vi è capitato di osservare e capire – a scegliere la seconda delle due possibili risposte, allora dovete sapere che non saranno le specifiche abrogazioni di leggi che con i referendum si andranno a produrre a darvi ciò che cercate, ma sarà la forza della risposta alla chiamata referendaria a creare, o meno, le condizioni politiche perché il legislatore sia indotto a intervenire. Finora non lo ha fatto, vuoi perché ideologicamente succube della magistratura – o meglio, di quella parte della magistratura che pur essendo minoritaria prevale sulla maggioranza silenziosa forgiando la mentalità collettiva e imponendo regole di comportamento – vuoi perché timoroso di ritorsioni. 

D’altra parte, è dall’inizio degli anni Novanta che è stato rotto l’equilibrio costituzionalmente dettato dalla separazione dei poteri, e tre decenni dopo è bastato che una ministra prudente come Marta Cartabia – peraltro di un governo di larghe intese, che come tale dovrebbe essere maggiormente predisposto a rompere vecchi tabù – provasse a mettere mano a ciò che non va per scatenare l’iradiddio e costringerla a partorire una mediazione che come tutti i compromessi faticosi non scontenta e non soddisfa del tutto nessuno. Ecco, la riforma Cartabia è un punto di partenza, non di arrivo, e i referendum sono la chiave di volta per farle fare un salto di qualità e incisività. Perché il concomitante esame parlamentare di quella riforma – il testo è passato a Montecitorio ma deve ancora essere licenziato da Palazzo Madama, e già il 15 giugno, tre giorni dopo il referendum, è previsto l’esame in aula – assegna ai cinque quesiti una tempistica determinante nell’indirizzare per il giusto verso il Parlamento.

Trent’anni fa gli italiani, di fronte al decadimento della politica che cominciava a non riuscire a dare più risposte alle loro richieste, pensarono che la soluzione fosse un bel repulisti prodotto dalla magistratura, cui peraltro la politica, abdicando ai suoi compiti, aveva già delegato oltre un decennio prima il compito di sconfiggere il terrorismo, ponendo così le premesse per il suo “sorpasso” nella gerarchia dei poteri. Ma da Tangentopoli a Palamara, ora il paradigma si è rovesciato. La magistratura ha via via perso la credibilità peri troppi casi di custodie cautelari ingiustificate imposte solo per esercitare pressione sugli indagati, di indagini accompagnate da clamore mediatico tenute aperte all’infinito per poi finire nel nulla, di condanne rivelatesi ingiuste e ribaltate nel secondo o terzo grado di giudizio. Si è capito che il dogma secondo il quale ciascuno di noi è colpevole fino a prova contraria (e anche dopo) era una mannaia che prima o poi ci avrebbe colpito tutti, direttamente o nella cerchia degli affetti e delle amicizie, senza fare sconti. Si è visto che in molti casi le congetture circa l’uso politico delle inchieste (la famosa giustizia ad orologeria) sono diventate certezze. Da Di Pietro e la sua fallimentare avventura in politica all’immacolato Davigo e il suo penoso tentativo di restare abbarbicato alla poltrona del Consiglio Superiore della Magistratura, si è assistito alla progressiva “caduta degli dei”, magistrati che hanno voluto conquistare un improprio consenso popolare e che poi ne sono rimasti vittime quando il vento è cambiato.

Credo che quella “maggioranza rumorosa” degli italiani che un tempo mise sul podio i magistrati elevandoli ad eroi pronti a punire quei mentecatti dei politici – era il tempo del “cappio” in Parlamento, a cura di un partito, la Lega, che oggi, significativamente, è stato con i Radicali co-promotore dei referendum – si sia oggi trasformata in una “maggioranza silenziosa” che ha acquisito coscienza non solo delle storture della mala-giustizia, ma anche dei danni politici ed economici che lo strapotere della magistratura ha prodotto. Ha capito che in quel solco è cresciuta non una sinistra di governo, moderna e riformista, ma un ceto politico – che definire dirigente è far torto all’etimologia della parola – in cui hanno trovato un posto di prima fila incompetenti, dogmatici, buoni a nulla, che arrivati al potere hanno mostrato bramosia e avidità, altro che giustizieri duri e puri (e non parlo solo dei grillini, perchè i populisti d’accatto li hanno coltivati un po’ tutti, sia a sinistra che a destra). Ha capito, la maggioranza degli italiani, che la cultura giustizialista saldata con quella negazionista e anti-scientifica ha prodotto un’incultura che ha mostrato tutti i suoi effetti perniciosi in occasione della diffusione della pandemia e della ricerca dei rimedi, così come saldata a quella del “no a tutto” ha bloccato lo sviluppo e il rammodernamento delle infrastrutture, ha rallentato il miglioramento del nostro sistema energetico, ha allontanato gli investimenti stranieri e disincentivato quelli nazionali. In una parola, ha contributo al declino socio-economico del Paese. Forse c’era bisogno che si avverasse una profezia che anni fa mi confidò il presidente Cossiga, in una delle nostre tante piacevoli chiacchierate private (che rimpiango da morire) a coté di quelle pubbliche a Cortina. Rispondendo alla mia domanda su quando sarebbe finita la degenerazione secondo cui l’Italia era un paese in mano ad una classe dirigente fatta di criminali, a meno che non si avesse il beneplacito del potere giudiziario, lui mi disse in un divertente slang sardo-romano: “A Cisnè, quando i magistrati si arresteranno tra di loro”. Una profezia che ripeteva sempre anche il compianto Massimo Bordin. Ora ci siamo.

Ecco perchè c’è bisogno che questa maggioranza di italiani consapevoli che la giustizia sia da riformare profondamente perda la caratteristica di “silente” e diventi “vociante”. In una certa misura lo ha fatto firmando (ma non nella misura che avrei sperato) la sottoscrizione dei referendum. Ma ora c’è bisogno di una risposta massiccia che certifichi senza ombra di dubbio il cambiamento epocale di cui mi sono spinto a dirmi certo. Consentitimi, dunque, un appello accorato. Se condividete questi giudizi, se vi sentite idealmente parte di quegli italiani consapevoli che la giustizia vada cambiata, come peraltro ci chiede in modo insistente l’Europa, non siate pigri o, peggio, pavidi: il 12 giugno andate a votare, e votate cinque volte Sì. Così la rivoluzione buona si potrà finalmente compiere.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.