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L'editoriale di Terza Repubblica

L'ora degli Stati Uniti d'Europa

IL VERO BERSAGLIO DI PUTIN È UN’ALLEANZA ANTI-OCCIDENTE. L’UNICA RISPOSTA SONO GLI STATI UNITI D’EUROPA

di Enrico Cisnetto - 23 aprile 2022

Diciamoci la verità, se dopo due mesi di guerra Putin non ha ancora chiuso la partita Ucraina è perché non ha interesse a farlo. Certo, è vero che l’eroica resistenza degli ucraini è stata al di sopra di ogni aspettativa, sia come intensità che come efficacia. Ed è altrettanto vero che la qualità dell’armamento russo e lo spirito dei militari impegnati sul campo si sono rivelati decisamente al di sotto delle attese. Inoltre, l’attivismo di Zelensky, che ogni giorno parla al telefono con presidenti e capi di Stato, tiene discorsi a parlamenti di mezzo mondo e spesso incontra leader europei e occidentali che vanno a trovarlo a Kiev, ha reso difficile per Mosca sferrare un attacco letale al bunker dove si nasconde il presidente ucraino. La cui eventuale capitolazione, tuttavia, rappresenterebbe un punto di non ritorno di questa guerra, ed è difficile immaginare che Putin voglia ma non riesca a centrare questo obiettivo. Anche perchè è evidente che la disparità delle forze che si fronteggiano era, e rimane, incolmabile. Insomma, quasi tutti gli analisti militari concordano sul fatto che, se Putin volesse, potrebbe distruggere non solo il bunker con Zelensky dentro, ma l’intera città di Kiev. Se non lo fa, è ragionevole pensare che nella sua testa ci siano altri obiettivi, prioritari rispetto a quello di annettersi in tutto o in parte l’Ucraina.

Io credo che Putin voglia sfidare l’Occidente, sapendo che né la Nato né tantomeno l’Europa – intesa come comunità e come singoli paesi – non possono permettersi di “fare la guerra”, perché le opinioni pubbliche continentali, già scosse se messe di fronte alla domanda se siano disposte a rinunciare a qualche ora di elettricità o qualche grado di freddo o caldo dei loro condizionatori per aiutare l’Ucraina, non lo tollererebbero. Tanto che neppure sul piano delle sanzioni economiche si riesce ad arrivare, principalmente per responsabilità della Germania e in seconda battuta dell’Italia, alla decisione che rappresenterebbe la vera svolta, e cioè quella di rinunciare completamente e subito al gas e petrolio russo. Per questo a Zar Vlad va bene, da un lato, che il conflitto si prolunghi per un tempo indefinito, così logorando più gli alleati occidentali di Zelensky che gli ucraini stessi, e dall’altro, che le operazioni belliche si mantengano ad un regime di intensità “controllata”, in modo da evitare che Ue e Nato si sentano costretti ad intervenire militarmente, cosa che – anche senza arrivare a ipotizzare il rischio nucleare – non conviene a nessuna delle due parti.

Più passa il tempo e più si capisce che alla Russia interessa solo fino ad un certo punto impedire agli ucraini di autodeterminarsi, di scegliersi il governo che vogliono, di decidere autonomamente se entrare nell’Unione europea o anche nella Nato. Per Putin è molto più importante riuscire a di spostare verso Ovest il limite tra democrazie autoritarie – o, come si usa dire adesso, autocrazie o democrature – e mondo occidentale. Ciò che vuole è combattere e limitare lo sviluppo della democrazia e delle democrazie, cioè di sistemi politici che mettono in difficoltà il suo potere, la sua figura, la sua visione del mondo. Forse siamo davvero “in un conflitto tra valori russi e valori occidentali moderni e post-moderni”, come dice Aleksandr Dugin, il maître à penser più gettonato al Cremlino. E come ha fatto acutamente osservare un germanista del calibro di Angelo Bolaffi, in fondo a tutto c’è la resa dei conti, più di 30 anni dopo, della fine senza colpo ferire del comunismo. Inteso come ideologia e come sistema politico organizzato. Si versa il sangue che non scorse nel 1989 quando cadde il Muro di Berlino e nel 1991 quando fui dichiarata dissolta l’Unione Sovietica. E sarebbe sciocco pensare che chi ha la presunzione di poter presentare il conto all’Occidente capitalista allora vincitore – sotto forma di vendetta e di riscossa, o sotto queste sembianze, di pura affermazione del proprio ego nichilista – si accontenti dell’antica Meozia (oggi Donbass) o dell’intera Ucraina.

Ma se questo è lo schema di gioco di Putin, come reagisce l’Occidente? L’affermarsi, in Europa come negli Stati Uniti, di partiti e leader politici populisti e sovranisti con simpatie verso paesi autoritari come Russia e Cina, dovrebbe indurci a temere che la democrazia si stia indebolendo, o addirittura che sia in recessione. Tanto più che, a ben vedere, dittature e autocrazie controllano circa due terzi della popolazione globale. E anche nella Ue ci sono paesi affetti da derive autoritarie (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Croazia). Per fortuna, abbiamo anticorpi e antidoti – e speriamo che domani in Francia funzionino, magari anche in maniera robusta (io confido in un 60%-40% a favore di Macron) – ma non c’è dubbio che, come hanno detto nella War Room di mercoledì 20 aprile (qui il link per vederla) tre intellettuali del calibro di Biagio De Giovanni, Ernesto Galli della Loggia e Vittorio Emanuele Parsi, l’Occidente deve capire che per difendere l’ordine liberale bisogna cambiare, sottoporsi a revisione, autoriformarsi. Sia chiaro, non si tratta di flagellarsi, finendo per dare ragione a Putin quando afferma che l’Occidente è vittima delle sue contraddizioni. Ma neppure fare gli struzzi, fingendo che essere dalla parte giusta della storia sia una volta per tutte e per sempre. 

Per esempio, le classi dirigenti e ancor più le élite intellettuali e tecnocratiche, sarebbe bene si domandassero perché nella più antica democrazia del mondo è passata la Brexit o perché nel 2018 in Italia e due settimane fa in Francia la maggioranza di chi è andato a votare ha scelto partiti e personalità nazional-populiste mentre l’opzione atlantista ed europeista ha dannatamente perso smalto. O perché si è rivelato illusorio pensare che la globalizzazione economica, basata sulla libera circolazione delle merci e dei capitali, significasse automaticamente il prevalere delle libertà personali e politiche, la difesa e la diffusione dello stato di diritto. Il fatto che la democrazia resti la forma meno peggiore tra quelle fin qui sperimentate per rappresentare gli interessi individuali e di parte e portarli a sintesi nell’interesse generale, non toglie che essa, come tutte le cose, senta il passare degli anni e dunque abbia bisogno di trovare i giusti correttivi. Altrimenti si regala alle autocrazie non solo il vantaggio derivante dalla loro velocità decisionale, ma anche dal fascino che questo “decisionismo” esercita sulle società che soffrono delle conseguenze della fisiologica lentezza che richiede la ricerca del consenso, come anche e soprattutto della patologica burocratizzazione dei processi esecutivi e amministrativi.

Ma, certo, il tempo lungo prima della consapevolezza di quanto sia necessaria una fase “rinascimentale” e “risorgimentale” dell’Occidente, e poi della sua realizzazione concreta, peraltro inevitabilmente progressiva, non è assolutamente compatibile con il tempo breve che richiede la risposta alla “vera guerra” di Putin – non me ne vogliano gli ucraini, al cui sacrificio va tutto il rispetto e al cui eroismo va tutta l’ammirazione che meritano – quella con cui intende riscrivere la storia e ridisegnare la mappa geopolitica del mondo, mettendosi alla testa di una coalizione di Stati che, approfittando della debolezza di Europa e Stati Uniti – e della fragilità dei loro rapporti, pur all’interno dell’Alleanza Atlantica – intendono dar vita ad un nuovo ordine mondiale, di tipo multipolare in cui le carte le diano i tre “nuovi grandi della Terra”, Russia, Cina e India.

E, allora, che fare? A me sembra che oggi ci sia una sola risposta possibile all’imperialismo putiniano, e non sta (solo) nella fornitura di armi all’Ucraina e nelle sanzioni economiche alla Russia per costringerla al default. La risposta è: riguadagnare, e con gli interessi, il tempo perduto in questo trentennio nella costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Sto parlando di qualcosa di più della pur utile integrazione comunitaria delle forze di difesa, o di altri forme di unione, come a suo tempo è stata quella monetaria. No, io parlo della piena integrazione politico-istituzionale, almeno dei paesi che già fanno parte dell’eurosistema. Finora si è guardato a questo traguardo con – colpevole – scetticismo, considerandolo o un romantico idealismo o, peggio, una presunzione predatoria di qualche potere forte che se ne infischia delle identità nazionali. Io ho sempre pensato, invece, che fosse una necessità dettata dalle logiche, prima di tutto dimensionali, della competizione globale, pena la marginalizzazione nelle catene del valore e il conseguente declino economico.

Ma ora la questione è diversa. Ora si tratta di sopravvivenza. Perchè siamo in guerra, anche se il sangue (per ora) scorre altrove rispetto a Roma, Parigi, Berlino e le altre capitali fondanti dell’Unione europea. E la risposta deve essere all’altezza del momento e della (vera) posta in gioco. Sia convocata una conferenza straordinaria, rifondativa. Ciascuna cancelleria, ma anche ciascuna società nazionale, sia messa davanti alle proprie responsabilità. Poi i tempi e le forme della nuova integrazione possono anche essere diversi, considerato che l’unanimismo è il primo motivo di paralisi. Ma la risposta che va data a Putin deve essere di pari forza alla sua sanguinaria, ma lucida, ambizione planetaria.

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