La stagione Draghi e il Pd
Il tira e molla con Salvini, le sparate di Orlando. Letta rifugga dalle operazioni di corto respiro
di Enrico Cisnetto - 29 maggio 2021
I classici primi 100 giorni del governo Draghi sono trascorsi come ogni luna di miele che si rispetti. In questo lasso di tempo il Presidente del Consiglio ha cambiato i ministri chiave, il commissario all’emergenza pandemica, il Capo della Protezione Civile, quello della Polizia e quello dei Servizi Segreti, i vertici di Cdp e Ferrovie. Ha rivoluzionato il Comitato Tecnico Scientifico. Ha dato sprint alla campagna vaccinale tanto che – pur evitando, non fosse altro per scaramanzia, di dire che la battaglia contro la pandemia è stata vinta – oggi ci sentiamo di certo più confortati. Ha programmato con buonsenso le riaperture. E ora, dopo aver riscritto – anche se non proprio al meglio – il piano per il Recovery, ha aperto la guerra contro un altro virus, quello che da oltre un quarto di secolo tiene la nostra economia tra stagnazione e recessione. Il che significa fare investimenti e riforme. E qui viene il difficile, perché cambiare le cose significa scontentare sempre qualcuno. E semplificazioni, fisco, burocrazia, giustizia, sono tutti temi divisivi. Specie per un parlamento balcanizzato, con il semestre bianco che si avvicina e le elezioni amministrative che rischiano di far definitivamente deflagrare gli equilibri di una maggioranza inedita che non si vive come tale.
Per questo, qualcosa sta cambiando nel rapporto tra i partiti e tra essi e il presidente del Consiglio, verso il cui decisionismo – ancorché privo, per fortuna, dell’additivo comunicativo – cresce una non più celata insofferenza. Per carità, si tratta di una cosa del tutto fisiologica: Draghi, privo di una forza politica di riferimento, sfugge allo schema dialettico delle contrapposizioni ideologiche che, ahinoi, caratterizza il nostro sistema politico, e che, dal 1989 in qua, finite le ideologie del Novecento, sono diventate solo stucchevoli e inconcludenti scontri di personalismi. Ma a diventare patologico, il fenomeno, ci mette un attimo. Specie se a incarnarlo non sono gli aedi del populismo grillino – che (apparentemente) sembrano spariti o riconvertiti – o quelli della retorica su Draghi “non eletto dal popolo” (la Meloni ci campa, ma non si stupisce nessuno), bensì il Pd, che invece dovrebbe essere il perno del sistema e del governo. E se poi a interpretare questa linea non è uno Zingaretti qualunque nelle mani del burattinaio Bettini, ma un riformista colto e intelligente come Enrico Letta, allora c’è davvero da preoccuparsi.
Devo confessarvi una cosa. Chi mi conosce lo sa, difficilmente mi dichiaro deluso di qualcosa o di qualcuno, perché di solito pratico lo scetticismo. Ma stavolta debbo dichiararmi sorpreso da come Letta ha affrontato la per lui inedita esperienza di segretario del Pd. Era – spero di poter dire, è – la persona giusta al posto giusto per chiudere la stagione del “partito diga”, che fin dalla nascita come Pds è stata la vera (e unica) cifra dei post comunisti. Forse perché il Pci avendo vissuto la “conventio ad excludendum” quando rappresentava il cosiddetto “fattore k” sentiva il bisogno di prendersi la rivincita distribuedo le patenti dei buoni e dei cattivi, forse perché con la caduta della Prima Repubblica per via giudiziaria si è creduto nella condizione di giocare quel ruolo, o forse più banalmente perché non avendo fatto seriamente e fino in fondo i conti con la storia tragica del comunismo e la fragilità alla prova dei fatti dei dogmi marxisti si è ritrovato privo di contenuti e prigioniero della sua retorica, sta di fatto che i diessini prima e i piddini poi hanno interpretato il maggioritario come il sistema che consentiva loro di essere l’argine via via di Berlusconi, delle destre, di Salvini, dell’anti-politica, dei sovranisti. Ma non perché portatori, i Democrat, di politiche che servivano ad evitare il declino italiano – che infatti ci ha travolto – bensì in nome di motivazioni nobili ma svuotate dalla corrosione retorica: i ceti popolari (senza però distinguere tra garantiti e non garantiti), l’antifascismo, l’Europa. Inoltre, la strumentalità di quella modalità di fare politica è dimostrata dalla volubilità delle alleanze e delle contrapposizioni. Così Bossi divenne una “costola della sinistra” quando si mise di traverso a Berlusconi, lo stesso Cavaliere è stato il demonio o un sopportabile compagno di strada a seconda delle circostanze, e i grillini sono stati dei sovversivi che brandivano l’arma impropria dell’anti-politica (quando erano alleati di Salvini) o degli alleati, al governo centrale come negli enti locali, per arginare le destre.
Ecco, tutto questo si sperava fosse spazzato via con l’arrivo di Letta. Così come si sperava, viceversa, che il Pd – capendo le ragioni profonde dell’arrivo di Draghi a palazzo Chigi, che attengono alla crisi strutturale del sistema politico e di quello istituzionale – si facesse partito cardine non solo del governo di emergenza, ma anche della ricostruzione della Repubblica che con ma soprattutto dopo Draghi dovrà avvenire. E invece, da un lato la riproposizione dello schema Zingaretti-Bettini di alleanza strategica con i 5stelle, nella folle idea di annettersi il partito avviato al disfacimento e vampirizzarne i consensi. Senza capire che il grosso dei voti arrivati ai cinquestelle nel 2018 fu di protesta qualunquista da parte di chi fino a quel momento aveva fatto parte del partito degli astenuti (che infatti ha subito una dialisi, perdendo i qualunquisti a favore degli stomacati), e che comunque quell’alleanza avrebbe impedito una ragionevole politica riformista (si pensi alla giustizia, per esempio) anche se il movimento, venuto a contatto con il potere, era andato perdendo i suoi tratti giacobini per assumere quelli indefiniti di Conte e del contismo.
Dall’altro lato, il Pd di Letta ha praticato la contrapposizione a Salvini, anche a costo di fare l’occhiolino alla Meloni, fatta in nome della sua conversione non credibile alla moderazione. Ora che il leader della Lega sia pieno di contraddizioni lo sa bene anche il grosso del gruppo dirigente leghista, ma dove si crede porti il quotidiano stuzzicarlo con proposte identitarie che, giuste o sbagliate che siano, in tutti i casi sono fuori dall’asse temporale del governo e del parlamento, o comunque sono destinate (come nel caso della posizione assunta da Orlando a ruota di Landini sul blocco dei licenziamenti) a creare problemi a Draghi (oltre che alla ripresa economica). Tutto questo senza capire che da quel tira e molla tra Letta e Salvini, non ci guadagna in consensi nessuno dei due, come recitano i sondaggi.
Ricordava Marcello Sorgi in una War Room dedicata proprio ai primi cento giorni di Draghi, che un tempo la Cgil di Lama, chiusa la stagione del “salario variabile indipendente”, cercava di portare il Pci su posizioni riformiste pure a costo di beccarsi la contestazione (anche armata) degli studenti e della sinistra radicale, mentre oggi che le posizioni sono rovesciate, un riformista come Letta sembra attestarsi a metà strada tra Corbyn e Sanders nell’illusione di non lasciare nulla alla propria sinistra (una vecchia ossessione che non ha mai portato bene) e di poter ancora una volta scegliersi l’avversario e riproporre lo schema della contrapposizione maggioritaria della sinistra buona contro le destre cattive. Favorendo così, nell’altro fronte, il prevalere di chi non ha altro da dire se non usare lo stesso schema a parti rovesciate.
Ma questo, oltre a non aver fatto tesoro dei danni provocati al Paese da un simile modo di far politica, significa non aver capito cosa voglia dire la “stagione Draghi”. Etichettarlo di centrosinistra quando non ascolta Salvini aperturista a tutti i costi, fino al punto di augurarsi la Lega fuori dalla maggioranza, e di centrodestra quando ascolta la Confindustria sui licenziamenti, è un vecchio riflesso condizionato che non porta da nessuna parte chi lo pratica e mette in seria difficoltà il governo, e con esso l’unica chance che l’Italia ha di cavarsela dopo che la pandemia ha aggiunto crisi e crisi esponendoci a pericoli mortali.
Cosa mi piacerebbe che il Pd facesse l’ho scritto la settimana scorsa su TerzaRepubblica: che capisse che il Paese è di fronte ad un bivio ineludibile tra “salvezza, rinascita e modernizzazione”, da un lato, e “default, decadimento, resa”, dall’altro; che l’occasione del Recovery e delle riforme che obbliga a realizzare è unica e imperdibile; che il governo Draghi è l’unico strumento che abbiamo a disposizione per non perdere questa occasione e dunque tutto va sacrificato al buon esito di questo (ultimo) tentativo; ma che senza una riforma strutturale del sistema politico-istituzionale e delle sue regole, ottenibile solo con una revisione della Costituzione (vedi l’intervista a Repubblica di Marcello Pera, QUI), anche il buon esito del lavoro di Draghi, cui deve essere assicurata continuità per almeno un’altra legislatura anche senza di lui al governo, verrebbe vanificato. Mi aspetto che un uomo della caratura di Letta rifletta su tutto questo e rifugga da operazioni di corto respiro. Che non segnerebbero solo il fallimento della sua segreteria, ma quello definitivo del Pd. Con il rischio che ciò significhi – purtroppo – anche il nostro, di fallimento.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.