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  • 20200328 - Conseguenze economiche della pandemia

Virus e conti

L'eco-pandemia in Italia

Riceviamo e pubblichiamo le note sulle conseguenze economiche della pandemia 

di Angelo Pappadà - 28 marzo 2020

  1. shock di offerta

 

La dipendenza dalla produzione cinese di molte filiere industriali o supply chain mondiali ha determinato un primo blocco degli approvvigionamenti di componenti, beni intermedi e anche beni finali. Fino all’esplosione della pandemia in Europa, si riteneva che, sia pure con un certo ritardo temporale, la riorganizzazione delle filiere sarebbe avvenuta a scapito dei fornitori cinesi e a vantaggio di quelli europei e americani (in effetti alcune imprese italiane hanno registrato un incremento degli ordini dall’estero in gennaio-febbraio). Ora è il contrario: la Cina ha conservato durante la fase acuta dell’epidemia intatto il potenziale industriale ed è pronta a riprendere le esportazioni (semmai hanno un problema di contrazione della domanda interna).

Tuttavia, occorre considerare gli effetti di lungo periodo della riorganizzazione delle filiere a livello mondiale: si rafforza la tendenza all’inshoring (soprattutto americana) e alla riduzione della dipendenza nazionale dall’estero, già resa evidente dalla guerra dei dazi (che coinvolge USA, Europa e Cina).

 

  1. shock di domanda

 

E’ il problema principale in tutto il mondo, per profondità e durata, ancora largamente non valutabili.

Le restrizioni imposte ai movimenti delle persone in tutto il mondo (tranne che nel Regno Unito) provocano una caduta dei consumi, fallimenti nei settori (intrattenimento, turismo e compagnie aeree) maggiormente dipendenti dagli spostamenti delle persone, rinvio degli investimenti a causa dell’incertezza. E’ convinzione diffusa che lo shock sia dovuto ad un fattore esogeno e non ad una crisi strutturale, come nel 2008: in questo senso, si pensa che possa rientrare rapidamente una volta che l’ondata di panico mondiale si sia attenuata.

Tuttavia, lo shock esogeno del 2020 si somma ad una condizione mondiale di bassa propensione storica all’investimento e quindi di debolezza (questa sì strutturale, per ragioni demografiche) della domanda aggregata rispetto al livello che sarebbe necessario per riassorbire la disoccupazione implicita (quella, cioè, che corrisponde a lavori nei servizi interni a bassi salari, in USA ed in Europa).

 

  1. i mercati finanziari e l’aumento dei debiti pubblici

 

In questo quadro, i mercati finanziari mondiali reagiscono nel modo consueto: l’aspettativa è che le imprese quotate disporranno di meno liquidità per buyback e/o distribuzione di dividendi; imprese già indebitate a tassi relativamente elevati troveranno difficoltà a rifinanziare il proprio debito in scadenza per l’aumento generalizzato dei premi per il rischio. A questa logica non sfuggono le banche: queste ultime, memori del 2008, tenderanno a non utilizzare la liquidità “creata” dalle banche centrali per sostenere o accrescere l’offerta di credito al settore privato in difficoltà[1], anche per il permanere della regolamentazione prudenziale introdotta dopo il 2008.

 

Parallelamente, la risposta di tutti i Paesi (con la parziale eccezione del Regno Unito)[2]sembra quella del 2008: espansione dei deficit pubblici per aumento della spesa sociale e dei sostegni alle imprese private in difficoltà. Di conseguenza, aumenterà la dimensione dei debiti pubblici e privati (già rimasti a livelli aggregati molto elevati dal 2008). L’aumento generalizzato del premio al rischio dovrebbe perciò investire anche safe asset tradizionali come i titoli governativi americani e tedeschi (per l’espansione senza precedenti annunciata del debito USA e per la rinuncia della Germania al pareggio di bilancio); inoltre, si ridurrà fortemente il flusso in acquisto dai Paesi esportatori di materie prime (a causa anche del calo del petrolio) e dalla Cina (che dovrà rilanciare la domanda interna).

 

Saranno quindi le banche centrali, come e più che nel 2008, ad assorbire l’eccesso di offerta di titoli di debito, indebolendo la struttura dei propri attivi: con differenze significative, anche in questo caso, tra USA ed Europa (nonostante l’annunciato incremento del QE della BCE a 870 mld. di euro fino alla fine del 2020), a causa della segregazione dei debiti governativi nazionali  

 

  1. debolezze dell’Italia

 

Prima debolezza: la tendenza alla nazionalizzazione delle filiere produttive è perniciosa per un’industria esportatrice come la nostra, tendenzialmente integrata a monte e a valle nonché molto rigida perché altamente specializzata e parcellizzata.

 

Seconda debolezza: la finanza pubblica, già in condizioni critiche, indebolita ulteriormente dalla scellerata politica del Governo Conte 1 (in particolare con quota 100) e con un rapporto debito/Pil troppo elevato e ritenuto sostenibile (finora) grazie alla diminuzione costante dei tassi sul debito innescata dal “whatever it takes” del 2012.

 

Il Governo Conte 2 ha varato una manovra di sostegno ai redditi di famiglie e PMI pari a circa l’1,5% del Pil nel 2020: il rapporto deficit/Pil quindi salirà a fine anno al 3,7% e il rapporto debito/pil supererà il 140%. Lo spread è tornato a livelli incompatibili con il sentiero di sostenibilità, non solo per l’aumento del deficit, ma anche per le conseguenze attese del calo del pil (tra -3 e -5% quest’anno, come nel 2009)[3].

 

La posizione di partenza quindi non ci consente di utilizzare pienamente i rilassamenti "temporanei" alla regolamentazione europea sugli aiuti di Stato nonchè la sospensione, anch'essa temporanea, del Patto di Stabilità. Se il sostegno pubblico alla domanda aggregata dovesse essere dimensionato su quello annunciato da USA e Germania (approssimativamente il 10% del Pil), si tratterebbe di deficit aggiuntivo per 170 mld., che farebbe schizzare il rapporto debito/pil al 150 o al 165% a seconda della gravità della recessione nel solo 2020. C'è il QE annunciato dalla BCE, che opera pur sempre secondo le regole del capital key e della diversificazione per emissione/emittente, che può, entro certi limiti, calmierare lo spread: ma come noto essa opera sul mercato secondario e non può sottoscrivere nuove emissioni. Il QE può contribuire a ridurre lo stock di btp in pancia alle banche italiane, ma la massa di nuovo debito e la caduta del pil potrebbero condurre al downgrading del debito pubblico italiano al di sotto dell'investment grade: il programma di acquisti verrebbe bloccato (salvo un ulteriore rilassamento delle regole) e così l'utilizzo delle linee tltro.

Secondo il Governo (e non solo), l'unica soluzione al dramma italiano è il ricorso ai prestiti del Mes, con garanzia collettiva (anche tramite bond da collocare sul mercato o acquistabili direttamente dalla BCE). Fino a questo momento, i prestiti del Mes sarebbero condizionali: si può essere scettici sull'esito di un negoziato che tedeschi ed olandesi terranno aperto senza concludere, sperando che in 3/4 mesi l'emergenza sia passata e si possa tornare al "business as usual"; inoltre, sulla base del potenziale del Fondo, l'entità massima del prestito ammonterebbe a 65 mld.: sufficiente a nazionalizzare banche e grandi imprese in difficoltà, non certo a fronteggiare l'ondata di disoccupati.

 

In ogni caso, il ricorso ad un prestito condizionale del MES sembrerebbe condurre alla crisi dell’attuale maggioranza, senza prospettive di essere sostenuto dalle opposizioni di destra: il Paese aggiungerebbe alla crisi economica più grave del dopoguerra una grave crisi politica, con conseguenze potenzialmente devastanti sulla nostra permanenza nell’UE[4]  

 

  1. la ricostruzione: un nuovo patto con gli italiani

 

Per scongiurare questa prospettiva, che può mettere in pericolo la stessa unità nazionale, occorre lanciare un forte richiamo collettivo, basato su un vero e proprio programma di ricostruzione: occorre cioè pensare al dopoguerra, non diversamente da quanto fecero nel 1942 con il Manifesto di Ventotene e con il programma del Partito d’Azione.

 

Il programma di ricostruzione dovrebbe concentrarsi da un lato sulla riconversione dell’apparato industriale (rendendolo meno sensibile alla fine della globalizzazione) e dall’altro sulla soluzione interna del problema del debito pubblico, ovvero del fattore di maggiore isolamento del Paese nel contesto europeo e internazionale.

 

Diversamente dal secondo dopoguerra, l’Italia non potrà contare su aiuti esterni paragonabili al Piano Marshall. La costruzione europea, di fronte all’emergenza, sembra non reggere. Tanto diversi sono gli interessi ed anche gli approcci culturali che emergono tra i diversi Stati-nazione.

 

La ristrutturazione del debito pubblico dovrà essere sostenuta da risorse interne, che esistono. I detentori esteri dei nostri titoli dovranno, nei limiti della legge applicabile, venire indennizzati, mentre i risparmiatori italiani saranno chiamati ad un sacrificio ingente; le banche dovranno essere indotte a fondersi per minimizzare le perdite aggregate e temporaneamente nazionalizzate, ove necessario. Dovrà essere definito ed attuato un piano di investimenti, sia pubblici che privati, finalizzato al rinnovamento di infrastrutture, istruzione e sanità.

 

La contropartita per tali sacrifici non potrà che essere un profondo rinnovamento della classe dirigente (non soltanto politica), tale da rendere credibile un nuovo patto nazionale. L’alternativa è il caos e la decadenza delle nostre istituzioni democratiche

 

 

  1. il negoziato con l’UE

 

L’Italia deve restare in Europa. Ma non ci si deve nascondere la profonda crisi delle istituzioni comunitarie, resa più acuta dalla pandemia. Seguire la lettera dei trattati ci condurrebbe, come detto, a condizionalità gestite dall’esterno e certamente foriere di una diffusa ribellione alle imposizioni dell’UE.

 

Viceversa, il negoziato con l’UE deve avvenire al più alto livello politico: la ristrutturazione interna del debito pubblico è ciò che possiamo offrire, in cambio di un periodo di tregua (non inferiore a 5 anni) per il rientro nei parametri del Trattato di Maastricht. Anche per questo, è necessario un governo di unità nazionale, composto e diretto da personalità al di sopra degli schieramenti politici e aventi le necessarie doti di autorevolezza, competenza e risolutezza.

 

[1] Ci sono però importanti differenze tra USA ed Europa, con una maggiore efficienza dei canali di trasmissione della politica monetaria americana

[2] Il budget britannico prevede un forte incremento della spesa pubblica per investimenti, ma è stato progettato per Brexit e non per l’emergenza coronavirus. Tuttavia sono state annunciate ulteriori misure di sostegno ai redditi

[3] Le misure del Governo, ancorchè emergenziali, non sembrano in grado di contrastare la caduta del reddito nel medio periodo, anche per la riluttanza del sistema bancario ad assumere nuovo rischio di credito (la leva della garanzia statale sui prestiti alle PMI sarà inferiore a quella attesa)

[4] Diversamente dal 2011-2012, un’eventuale nuova crisi del debito italiano non sembra implicare pericoli per la continuità dell’euro

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