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Economia e politica

La responsabilità del futuro

La relazione integrale di Carlo Bonomi, Presidente Assolombarda, durante l'Assemblea Generale 2018

19 ottobre 2018

Care Colleghe e Cari Colleghi, Autorità, rappresentanti del Sindacato, del mondo dell’Università, della Scuola e della Società civile,
a tutti voi il mio più caloroso ringraziamento per essere qui con noi.
È trascorso un anno e mezzo da quando, in questo stesso meraviglioso teatro ci dicemmo che era finalmente il tempo di sentirsi protagonisti del nostro futuro.
La ripresa italiana assumeva trimestre dopo trimestre forza e sostanza. Più occupati, più export, più investimenti. Milano macinava successi crescenti che imprimevano maggior velocità e spessore all’accelerazione verso i mercati aperti.
Brexit appariva come un rischio da imbrigliare, e Macron come una risposta di portata continentale al rischio di marce indietro verso gli egoismi e le chiusure nazionali.
Ma da allora molte cose sono cambiate.
Da alcuni trimestri a questa parte, il vigore della ripresa internazionale ha perso smalto.
Il commercio mondiale frena, sotto i colpi di successivi interventi bilaterali sempre più consistenti che alzano il livello dei dazi ormai su alcune centinaia di miliardi di dollari d’interscambio tra USA e Cina. A cui si aggiungono anche i maggiori dazi USA che colpiscono l’Unione Europea.
Il rientro delle politiche monetarie delle maggiori banche centrali verso strumenti ordinari e il rialzo dei tassi d’interesse da parte della FED è tornato a convogliare verso il dollaro ingenti flussi finanziari. Essi risospingono verso la crisi i Paesi afflitti da gravi instabilità sistemiche, siano esse dovute all’eccesso di debito pubblico o di debito privato denominato in dollari, mentre il valore delle valute nazionali va a picco insieme alle bilance dei pagamenti. Dalla Turchia all’Argentina al Venezuela, tornano al pettine i nodi strutturali di tanti Paesi i cui regimi politici hanno illuso per anni i loro cittadini di aver conseguito stabilità e benessere.
La Brexit è diventata una sempre più drammatica corsa contro il tempo. Il governo di Londra non riesce ad assumere in alcun modo un approccio chiaro al tavolo negoziale. Stretta tra il vincolo di smentire una decisione che non sa come attuare, e le divisioni interne sul se e come scegliere la persistenza nel mercato unico dei beni ma non dei servizi pur senza fare parte della governance, Londra rischia di avviarsi nella prossima primavera a una hard Brexit che farà male tanto all’economia britannica, quanto a quella europea, sia pure in minor misura.
Macron ha sin qui deluso l’aspettativa di poter rappresentare un solido punto di riferimento. L’Europa si avvia alle elezioni della prossima primavera più debole e divisa di quanto le dure lezioni apprese nel post 2011 spingessero a sperare e immaginare.
Sul tavolo del commercio mondiale, USA, Cina e Russia sono tra loro divise. Ma tutte, per ragioni diverse, mirano a indebolirci. È finito il tentativo di governo multilaterale della globalizzazione nato alla caduta del muro. Il G20 è poco più di una sede rituale di fronte al confronto a due tra grandi
potenze. Dal prezzo delle commodities energetiche allo scontro in Medio Oriente tra sciiti e sunniti, l’Europa e i singoli Paesi europei hanno visto il proprio ruolo e i propri interessi verticalmente indeboliti.
E, su tutto questo, nella generalità dei Paesi occidentali e innanzitutto in Italia ha assunto una forza sempre più rapida un massiccio fenomeno di riorientamento del consenso popolare.
Verso forze che auspicano il ritorno a sovranità nazionali contrapposte.
Verso un’idea di Stato non solo dispensatore di sussidi, ma di nuovo protagonista nell’affermazione sulla scena internazionale di vincoli e dazi discrezionali, come in ambito nazionale nella conduzione diretta di imprese e nell’offerta di beni e servizi.
Verso un’idea di comunità nazionale chiusa nelle proprie frontiere, diffidente se non esplicitamente avversa a ogni idea ordinata di gestione e integrazione dei flussi migratori.
Si tratta di fenomeni di un tale impatto che come imprese non possiamo e non dobbiamo ignorare.
Come comunità di imprese che si riconosce in Assolombarda, noi avvertiamo il nostro dovere come rivolto all’intera società, e non solo verso i nostri collaboratori e soci, clienti e fornitori.
Come parte del ceto dirigente del nostro Paese, non possiamo e non dobbiamo volgerci dall’altra parte, e discutere solo delle nostre esigenze e attese in vista della prossima legge di bilancio.
Per questo ho deciso di rivolgermi in questa Assemblea non solo al mondo dei nostri associati. Né alla sola Confindustria nella sua interezza, di cui siamo orgogliosamente parte.
Ma, idealmente, a tutte le forze protagoniste della vita pubblica italiana.
Sono gli effetti di una bassa crescita economica e di politiche sbagliate di finanza pubblica pluridecennali ad essere sfociati nel post 2011 in una perdita di reddito medio più profondo e doloroso di quello della crisi del 1929. Si tratta di errori che hanno responsabilità storiche ben precise. Ma se il 60% degli italiani mostra oggi nei sondaggi di riconoscersi in una reazione che ascrive tale effetto drammatico alla responsabilità generale delle cosiddette élite a spese di milioni di concittadini, noi non possiamo tirarci indietro.
A maggior ragione quando un fenomeno simile investe ormai un numero crescente di Paesi europei, dalla Svezia alla Polonia, dall’Ungheria alla Cechia, dall’Austria alla Germania. Col rischio che l’Europa si sgretoli, priva di leadership come essa appare e dall’esito totalmente inconcludente della riforma della sua governance che era annunciata per questo 2018, e che è finita totalmente nel dimenticatoio.
Di fronte a questo quadro, avvertiamo un dovere. Dobbiamo tutti contribuire a una nuova strategia di responsabilità nazionale, con gli occhi rivolti all’Europa.
Noi tutti dobbiamo sentirci responsabili di ciò che saremo.
Non è il momento di abbandonare processi potenzialmente disgregativi così profondi nelle mani di qualcuno che non pensa all’interesse di tutta la comunità.
È avvenuta nel volgere di pochi mesi una trasformazione profonda del senso di sé e della volontà reattiva degli italiani. È un fenomeno che non trova riscontro nell’alternanza tra destra e sinistra al governo durante la Seconda Repubblica. Assume forme di ripulsa verso la stessa idea di democrazia rappresentativa, verso i fondamenti garantisti della giustizia e della presunzione d’innocenza. Inoltre esprime sfiducia crescente verso la scienza – si pensi al rilievo del fenomeno NoVax, che ci vede segnalati ormai dalle autorità sanitarie internazionali come un Paese prima della cui visita sottoporsi a profilassi – e le nuove tecnologie, imputate di sostituire lavoro umano accrescendo le fila dei disoccupati.
In particolare questi due ultimi fenomeni minano anche la fiducia verso la libera impresa, considerata come un attore di processi organizzativi, gestionali e finanziari non più volti a rafforzare l’occupazione e la coesione sociale, bensì potenzialmente tali da accrescere i divari di reddito e il disagio sociale.
È inutile fingere di non vedere la portata convergente di questi fenomeni.
Voglio essere chiaro ed evitare ogni equivoco.
Il clima sociale e culturale che ha portato al voto dello scorso 4 marzo non chiede alle imprese di mettere in campo forme di opposizione ai partiti e al governo.
Noi non tifiamo per questo o per quello. Noi tifiamo per l’Italia. Da sempre.
Né per questo contro quello. Noi siamo collaborativi nell’interesse del Paese.
Noi rispettiamo la politica e i partiti perché Noi rispettiamo le istituzioni repubblicane, la nostra Costituzione.
Noi siamo un pezzo essenziale della società italiana.
Noi reggiamo l’Italia sui mercati internazionali con il record storico dell’export conseguito nel 2017.
Noi diamo lavoro a milioni di italiani.
Noi sosteniamo in misura importante, con le nostre tasse, gli 840 miliardi di spesa pubblica italiana.
Dalla crisi non siamo usciti per diritto divino.
Ne siamo usciti grazie soprattutto all’impegno e al sacrificio di migliaia di imprenditori italiani, e di tutti i nostri collaboratori.
Ma come imprenditori abbiamo pagato un caro prezzo, con quasi 700 vite umane spezzate e migliaia di aziende che hanno chiuso i battenti.
E sulle 700 vite spezzate lasciatemi anche dire questo. Io penso che potevamo e dovevamo fare di più. Non importa a quale associazione fossero iscritti, se fossero manifatturieri, artigiani o commercianti.
Per me non fa differenza alcuna. È il forte senso di solitudine di fronte al ritardo dei pagamenti, alle pretese del fisco, alla vischiosità delle procedure amministrative, ad aver spinto tanti imprenditori a farla finita.
E noi dobbiamo essere in campo ogni giorno, perché quella solitudine trovi comprensione e sostegno. Restare soli è un duro prezzo che paghiamo all’ostilità persistente contro l’impresa nel nostro Paese.
Ma noi come sistema dobbiamo vincere la solitudine innanzitutto mostrando di essere tutti pronti a farcene carico. Umanamente, prima ancora che con iniziative economiche.
Perché ognuno di noi che abbandona, impoverisce tutti noi e impoverisce il Paese.
Diciamolo, una volta per tutte.
Per anni in Italia troppi hanno pensato che per essere imprenditori bastasse aprire una partita IVA.
Con tutto il rispetto, non è così.
No, essere imprenditori è avere il senso del rischio, guardare a nuovi mercati, ricercare e attuare maniacalmente l’innovazione, perseguire la crescita con tutti i nostri collaboratori.
E, a proposito di lavoro. Noi non siamo quelli dei campi, che sfruttano col caporalato italiani e stranieri.
Siamo stufi di essere confusi con chi lucra sulla fame. Le leggi ci sono. Lo Stato intervenga, li metta in galera.
Ma, una volta per tutte: basta dire che quelli sono imprenditori. Noi con i delinquenti non abbiamo nulla a che fare.
Ed è con questo orgoglio, che lanciamo un forte appello a tutti i corpi intermedi della società italiana. A tutte le altre associazioni d’impresa, al mondo della finanza e alla comunità della ricerca scientifica, ai sindacati e al mondo del lavoro, all’associazionismo e al Terzo Settore, alle Università e al mondo della cultura.
Siamo noi che dobbiamo dare, tutti insieme, una risposta nuova alla crisi di fiducia complessiva che attanaglia gli italiani.
Siamo noi che dobbiamo proporre una nuova visione di un’Italia coesa, che dia risposte a chi ha meno, che ripristini gli ascensori sociali oggi bloccati, che valorizzi le competenze e che premi il merito, che torni a comprendere che come Paese trasformatore non possiamo isolarci dal mondo, ma al contrario dobbiamo scommettere su una sua maggiore apertura. Se viviamo di export, che ha permesso la pur asfittica ripresa di questi anni, chiuderci vorrebbe dire farci male da soli.
È una sfida culturale di vasto respiro. Impegnativa quasi come quella che vide l’Italia ricredere in se stessa dopo il 1945.
Ed è in questo spirito che avanzerò alcune proposte che rappresentano il condensato di ciò che come Assolombarda vogliamo proporre al dibattito pubblico nazionale. Come contributi essenziali a una piattaforma comune di ridefinizione a 360 gradi della responsabilità nazionale.
Ma prima di addentrarmi negli esempi, lasciatemi aggiungere ancora una cosa.
Prima di tutto, si tratta di recuperare un linguaggio più adeguato.
Perché è il linguaggio compulsivo della comunicazione pubblica, il primo elemento che alimenta le paure per sfruttarle a fini di consenso.
A fare la cultura di un Paese, e l’immagine che esso ha di sé, sono innanzitutto l’educazione, il linguaggio e i comportamenti.
Se si attaccano le Autorità indipendenti che presidiano i mercati e se ne travolgono i vertici si torna indietro di 40 anni e ci si esclude dalla comunità dei mercati.
Se si tacitano i magistrati perché non eletti, si abbatte la fiducia nell’eguaglianza di fronte alla legge e la si sostituisce con la giustizia dei partiti.
Ancora: critichiamone pure i provvedimenti, certo sbagliano anche loro, ma non dimentichiamoci mai che loro, come i componenti delle
forze dell’ordine, sono stati e vengono assassinati perché servono lo Stato e la Costituzione, le regole della nostra convivenza civile, cioè tutti noi!
La politica ha il suo mandato popolare. Ma le istituzioni di un Paese libero dai tempi di Montesquieu vivono dell’equilibrio tra poteri diversi. Guai a rinunciarvi!
È questa generale mancanza di responsabilità a travolgere la fiducia verso le istituzioni. Sono queste le sacche di inciviltà che finiscono per espandersi come un cancro che sfibra la coesione.
Perché le istituzioni sono il nerbo della Repubblica, come ha detto il Capo dello Stato. E noi vogliamo difenderle innanzitutto da chi usa toni inadeguati.
De Gasperi aveva di fronte a sé un Paese in cui era diffusa la disperazione. Il capitale fisico e finanziario era abbattuto, il lavoro mancava, la miseria allignava, e l’Italia era ai margini di ogni considerazione internazionale.
Eppure, a De Gasperi non passò mai per la testa l’idea di alimentare nuovi rancori e paure. Così l’Italia si rimise in piedi e tornò all’onor del mondo: perché riscoprì la fiducia in se stessa. Evitando, persino nella più dura contrapposizione del 1948, di ripercorrere le vie dell’odio anche in un momento di fortissimi scontri politici.
La rivoluzione del linguaggio responsabile è la prima che dobbiamo fare.
Perché dobbiamo dirlo con forza: se siamo arrivati al 4 marzo, e se da allora non cessano toni e argomenti che dividono frontalmente la società italiana, il primo dovere dei ceti dirigenti è quello di ripristinare il linguaggio della civiltà.
Ed è per questo, desidero sottolinearlo con forza, che ci riconosciamo con totale convinzione nell’infaticabile opera quotidiana che sta svolgendo in questi difficili mesi il Capo dello Stato, Sergio Mattarella.
Lo ringraziamo di cuore, nella speranza che il nostro applauso gli esprima tutto il sostegno che egli merita.

LA RESPONSABILITÀ DI MILANO
Nella ripresa italiana, Milano, intesa come il territorio che noi rappresentiamo ovvero Milano, Monza e Brianza e Lodi, è stata la prima.
Ma come primi in Italia, il nostro senso di responsabilità è considerare il successo di Milano a disposizione del Paese.
Il significato delle medaglie d’oro che Milano consegue in molti settori per noi ha un significato imprescindibile. È il valore di ciò che dobbiamo restituire all’intero Paese.
La nostra leva fondamentale è l’attrattività: del capitale umano, finanziario, delle imprese, del turismo. Per questo Milano concentra il 32% delle multinazionali che operano in Italia, e capitalizza l’intervento di oltre 34
grandi fondi d’investimento e gruppi immobiliari esteri intorno ai 43 maggiori progetti di ristrutturazione urbana che fervono in città.
Milano ha superato in questo 2018 le 200 mila imprese attive, con i giovani in controtendenza nazionale che scelgono sempre più Milano per studiare e lavorare e la porteranno verso 1,4 milioni di residenti. Milano capitale digitale, con un grande patto tra imprese e università.
Milano polmone dell’innovazione e della crescita, dell’integrazione e della coesione sociale. Perché sono le grandi città metropolitane innestate in economie regionali ad alto valore aggiunto il vero motore della crescita globale, non i sistemi-Paese nazionali, come invece molti ancora credono con la testa rivolta al passato.
Ed è in questo spirito che Assolombarda amplia sempre più la propria cooperazione con lo straordinario impegno che il Terzo settore e il privato sociale profondono nei nostri territori a sostegno di poveri e svantaggiati, dell’housing sociale e dei molteplici progetti di integrazione culturale.
Con un caloroso ringraziamento di tutti noi a tutto ciò che la Chiesa ambrosiana ogni giorno mette in campo con la sua rete di solidarietà umana: a cominciare dall’opera insostituibile svolta dalla Caritas.
Noi per primi siamo chiamati a iniziative nuove. Voglio solo richiamarne una a titolo di esempio: i 100mila euro che abbiamo raccolto e devoluto insieme alle organizzazioni sindacali che ringrazio, a sostegno delle donne vittime di violenza e molestie. La violenza sulle donne è una vergogna civile che deve finire!
Così come deve finire la distinzione di genere sul lavoro, a partire dai salari!
È questo lo spirito con cui ancoriamo a una base comune le proposte delle nostre imprese all’intera comunità delle istituzioni politiche e amministrative, di Milano Città Metropolitana e della Lombardia. Vuol dire rendere più incisiva e forte la nostra voce comune sulla scena delle scelte nazionali, europee e internazionali che ci vedono attori e protagonisti.
E in questo quadro ribadiamo il nostro sostegno alla candidatura per le Olimpiadi Invernali 2026.
Ma a questo proposito voglio anche aggiungere una cosa. Basta polemiche e controversie, per favore. Le Olimpiadi sono di una nazione, non di una città o regione. Se continuiamo a trasformare ogni candidatura internazionale in un rodeo domestico, non è Milano che perde credibilità: è l’Italia intera agli occhi del mondo.
Tutti questi successi chiedono però che Milano e la Lombardia possano contare su un’attenzione prioritaria alle loro esigenze.
Non appartiene alla nostra tradizione assumere atteggiamenti vittimistici e rivendicativi. Al contrario, è la forza dei nostri numeri a consegnarci un ruolo nazionale che declini la responsabilità rispetto agli avventurismi, la coesione rispetto alle fratture, la proiezione verso il mondo contro ogni nostalgia autarchica.
Per questo chiediamo che venga riconosciuta ora dall’attuale governo una maggiore autonomia dei livelli amministrativi che uniscono la Grande Milano e il mix di specializzazioni della Lombardia.
Più autonomia non per inseguire impossibili mire scissioniste. Bensì per essere ancora più attrattivi. Cioè per trainare meglio l’Italia intera. Per essere crocevia tra Europa e Mediterraneo.
Ci sta a cuore l’Italia. Ed è per questo che non ci battiamo solo per più autonomia a Milano e alla Lombardia.
Vedere Roma nello stato in cui si dibattono i suoi servizi pubblici, di trasporto e di smaltimento rifiuti, è una stretta al cuore. È la Capitale, finestra dell’Italia sul mondo.
Noi non concepiamo la nostra sfida come una gara Milano contro Roma.
Essere primi a Milano per noi significa lavorare per una grande alleanza che metta a fattore comune le migliori energie del pubblico e del privato, perché tutte le grandi aree metropolitane siano in condizioni di essere moltiplicatori dell’attrattività e della crescita nazionale, ciascuna secondo le sue vocazioni.
Credo profondamente in questa nostra missione civile. E i nostri successi a Milano ne raddoppiano l’importanza e il dovere.

IL RUOLO DELLO STATO
Come imprese, siamo chiamati a una grande battaglia culturale su uno dei fondamenti stessi di ogni idea di comunità.
Ed è per questo che dobbiamo impegnarci con forza perché non si radichi e si diffonda sempre più in Italia il ritorno in grande stile dello Stato paternalista.
Non abbiamo bisogno di uno Stato che torni ad essere padre e madre: perché nella storia del Novecento questa formula ha prodotto guai immensi. L’etica pubblica non è l’etica di uno Stato che voglia dall’alto imporre ai cittadini la sua visione di cosa sia morale e cosa no.
Dobbiamo dire NO a uno Stato che chiuda gli esercizi commerciali la domenica, sostenendo di difendere le famiglie. Viola la libertà di milioni di consumatori, abbatte consumi e lavoro, mina la possibilità che proprio le famiglie in cui lavorano due componenti si possano contemperare i tempi di lavoro con le scelte di consumo.
NO a uno Stato che crede di poter rigestire il trasporto aereo. Se non potevamo permetterci, anche giustamente, un aereo di Stato come quello della presidenza del Consiglio, possiamo mai tornare a permetterci una flotta pubblica di Stato? Quando già con il prestito ponte abbiamo profuso 6 volte l’ammontare di quello che il venture capital dà alle start up in Italia in un anno? E tutto questo per un vettore che perde 1,2 milioni di euro al giorno? Perché non fare un referendum e chiedere agli italiani se vogliono ancora pagare di tasca propria per Alitalia?
NO a uno Stato che si oppone alle grandi opere infrastrutturali come TAP, TAV, e Terzo Valico. Il governo ha evitato un grave errore respingendo la tentazione di chiudere l’ILVA, scelga ora sulle grandi opere di trasporto ed energetiche di parlare la lingua del futuro e non quella del passato.
NO a uno Stato che ci chiama “prenditori” e che dopo anni di promesse continua a non pagarci oltre 40 miliardi, chi è il vero prenditore?
NO a uno Stato che creda di poter strappare 35 mila contratti di concessione: la vicenda tragica del ponte Morandi vede con troppa disinvoltura dimenticate le responsabilità della vigilanza tecnica e di sicurezza del concedente pubblico, ignorata la necessità che le responsabilità si accertino con indagini amministrative e penali, calpestata la prescrizione vigente che la realizzazione della nuova opera sia fatta con gara di evidenza europea e non con affidamento diretto.
Anche se su questo tema voglio aggiungere una cosa: la vicenda del ponte Morandi ha anche mostrato che, quando li commette, l’impresa i suoi errori deve ammetterli.
Lo dico da Presidente di una grande associazione: che ascolta tanti associati increduli e scandalizzati di fronte alle minimizzazioni.
Non difendiamo il sistema dell’impresa, nascondendo i nostri errori. Così rafforziamo solo l’ostilità all’impresa, che è già troppo vasta nella politica e nella società italiana. E che mette in difficoltà chi, come noi, fa rappresentanza sul territorio.
È un errore che non dobbiamo commettere.
Dobbiamo noi per primi dire che chi sbaglia deve pagare, secondo le regole dello stato di diritto.
Proprio per evitare che altrimenti le conseguenze ricadano sull’intero sistema delle imprese.
E che diventi così ancora più difficile il compito di chi, come noi, crede e scommette sulla rappresentanza delle imprese come leva per costruire fiducia.
Un’ultima cosa, a proposito di rappresentanza.
Abbiamo visto che il governo convoca a Palazzo Chigi le controllate pubbliche, e chiede loro di far questo e quello.
Inutile dire che per grandi aziende quotate un governo dovrebbe sapere per primo che rispondono ai mercati e la loro autonomia è un bene primario.
Ma il tema è un altro. Se un governo chiede alle controllate pubbliche di fare quel che nella manovra il governo non pensa di riuscire a realizzare, è il governo che ha un problema.

IL METODO RESPONSABILE NELLE SCELTE PUBBLICHE
Con tutto il rispetto per la politica, noi chiediamo a tutte le forze sociali italiane di concorrere a un metodo diverso: scegliamo dove allocare le scarse risorse pubbliche a disposizione seguendo un metodo preciso e condiviso.
Chiediamo di convogliarle verso le scelte che vengono stimate come più rilevanti per accrescere il prodotto potenziale, in calo purtroppo da anni.
È questo il metodo per ottenere comprensione e sostegno in Europa.
Non quello delle promesse elettorali, “scassa-bilancio” e di scarso impatto su crescita e lavoro. Come nel caso del Decreto Dignità, che secondo i primi dati attualmente disponibili col suo regime di causali obbligatorie e aumento dei costi esercita esattamente gli effetti contrari alla conferma dei contratti, effetti paventati da Confindustria e tutte le associazioni d’impresa senza eccezioni. Ma rimaste inascoltate.
Questo è il metodo che ci porta a proporre:

UNA NUOVA VISIONE DEL MONDO DEL LAVORO
Serve una visione radicalmente diversa del mondo del lavoro.
Abbiamo per questo redatto un Libro Bianco sul Lavoro realizzato da Assolombarda in collaborazione con Adapt, la fondazione guidata dal professor Michele Tiraboschi, che ha dato vita a uno degli osservatori più avanzati di come il lavoro sta cambiando nel nostro Paese.
Lo sforzo culturale da compiere su questo terreno è immenso.
Prima di ogni cosa infatti dobbiamo come imprese darci un compito preciso: descrivere nelle scuole e nelle università che cosa è il lavoro oggi.
La cosa più incredibile è continuare ad assistere in tv e sui media a descrizioni del lavoro come fossimo ancora nell’epoca fordista o negli anni Settanta. Ma da allora se pensiamo al mondo dei meccanici si sono susseguite ben tre rivoluzioni diverse: quella della Lean Production, del metodo World Class Manufacturing che è stata la Fiat a portare negli USA in Chrysler, e oggi di Industria 4.0 che si estende e radica anche nel nostro Paese.
Non ha più senso l’antica separazione tra lavori manuali e lavori intellettuali. Le competenze richieste dalle nuove tecnologie e dai nuovi modelli organizzativi disegnano anche nella piccola impresa sempre nuovi intrecci tra capacità tecnica di gestione di macchinari e di processi.
Come insegna il confronto in atto nato dalla premessa comune sottoscritta con i sindacati per il nuovo contratto dei metalmeccanici, prima ancora di metter mano all’aggiornamento di salari e diritti occorre ridefinire le mansioni: se si pensa che il mansionario dei meccanici era fermo al 1973, è come pensare di studiare la fauna immaginando ci siano ancora i dinosauri.
Per questo noi vogliamo cambiare l’Italia dal basso, attraverso i contratti. Senza intromissioni da parte della politica.
Insieme ai nostri collaboratori e ai loro sindacati. Perché attraverso i nuovi contratti aziendali si crea fiducia nelle nuove competenze, si dimostra che le
nuove tecnologie creano lavori e saperi nuovi, si afferma ed estende il welfare aziendale, si promuove la formazione continua che è un nuovo fondamentale diritto/dovere dei lavoratori ed è leva per la crescita di tutte le imprese.
Sono proprio queste, le premesse attraverso le quali le imprese cresceranno nella produttività insieme a tutti i nostri collaboratori: non solo con il salario di merito, ma con gli investimenti in innovazione, formazione e welfare.
È una visione antitetica a quella che vediamo oggi diffondersi intorno a noi.
E allora diciamolo. I 10 miliardi del reddito di cittadinanza destiniamoli a un Fraunhofer italiano della ricerca per l’industria e la manifattura. Sullo stesso modello del 30% di finanziamento pubblico e del 70% a carico delle imprese, come in Germania. Negli anni, si tradurrebbe in un balzo della produttività, dell’occupabilità dei giovani e del trasferimento tecnologico alle imprese, immensamente più utile di qualunque sussidio pubblico slegato dall’idea di un reddito da lavoro.
E aggiungo. NO a uno Stato che torna a prepensionare aggravando il furto ai danni dei più giovani. Nessun dato empirico comprova l’ipotesi che un pensionato anzitempo lasci il suo lavoro a un disoccupato giovane. Al contrario, i dati dei Paesi OCSE mostrano che a crescere di più è chi ha insieme più occupati giovani e anziani, senza nessun automatico effetto sostitutivo. E allora spendiamo i miliardi destinati ai prepensionamenti negli ITS e nelle Università professionalizzanti, che ci servono come il pane per risolvere il mismatch dei tecnici che oggi mancano e che le nostre imprese non riescono a trovare!
Vogliamo politiche attive del lavoro, non uno Stato maxi fabbrica di persone subalterne ai suoi trasferimenti!

UNA MANOVRA DA PAESE RESPONSABILE
Non conosciamo ancora il dettaglio della legge di bilancio.
Ma abbiamo già pagato un prezzo elevato alle modalità con cui il governo è giunto ad aggiornare il DEF, per poi modificarlo. Senza per questo convincere mercati ed Europa.
Il punto di fondo non era e non è l’innalzamento del deficit 2019 al 2,4% del PIL.
Se il maggior deficit fosse dovuto a un drastico innalzamento degli investimenti e degli stimoli alla crescita assumerebbe tutt’altro significato agli occhi di Europa, mercati e agenzie di rating.
Se invece il maggior deficit si persegue per continuare sulla vecchia strada di miliardi aggiuntivi alla spesa corrente – come a tutti gli effetti avviene destinandoli a reddito di cittadinanza e prepensionamenti – ecco che allora le stime di maggior crescita del PIL del governo non risultano credibili, e il debito pubblico continuerà a salire. Non saranno 5 miliardi soli di investimenti pubblici in più a far salire il PIL dallo 0,9% potenziale, a cui anche il governo lo stima, a +1,5% programmatico indicato dal governo stesso.
Il punto è tutto qui: il governo del cambiamento non ha prodotto una manovra di vero cambiamento. Ma tutti comprendiamo che il dividendo che si ricerca è quello elettorale, non quello della crescita.
Ma nel frattempo il maggior costo delle emissioni pubbliche si trasferisce subito in maggior costo delle emissioni obbligazionarie bancarie e d’impresa. Il capitale delle banche si erode. E nel conto patrimoniale le banche cariche di titoli del debito pubblico devono ogni trimestre abbassarne il valore seguendo il mercato, bruciando i risparmi di milioni di persone. È evidente a tutti che per questo canale torna a manifestarsi il rischio di una ulteriore restrizione del credito, e di traslare su famiglie e imprese il maggior costo del debito pubblico.
Una manovra da Paese responsabile dovrebbe non solo accrescere in maniera molto più significativa gli investimenti pubblici.
È sul fisco, che avrebbe dovuto essere molto diversa.
Ed è innanzitutto su questo punto che il governo ci ha molto deluso.
Prendete la nostra proposta di revisione organica del fisco italiano, e traducetela in atti concreti.
Essa rappresenta il lavoro finale di una profonda riflessione che Assolombarda ha condiviso con esperti e professionisti del mondo tributario.
Limitarsi ad innalzare a 65 mila euro la franchigia per l’aliquota del 15% sui redditi da microimprese per partite IVA e professionisti accresce solo ulteriormente l’enorme disorganicità del nostro sistema tributario.
La nostra proposta nasce da un metodo diverso. Il metodo della responsabilità. È venuto il momento di una riflessione comprensiva che incardini gli interventi in materia tributaria seguendo quattro princìpi eretti a caposaldo. Occorre infatti:
- commisurare la priorità degli interventi secondo effetti di maggiore equità e maggiore spinta alla crescita complessiva del Paese;
- tenere ferma la necessità dell’equilibrio complessivo di bilancio, determinando cioè precise coperture agli effetti di minor gettito attesi, nella valutazione che la partecipazione all’eurozona sia imprescindibile condizione di crescita;
- assumere di conseguenza un orizzonte temporale graduale e realistico per adottarli, nell’arco dell’intera legislatura;
- rispettare rigorosamente le compatibilità derivanti dalla fiscalità europea e internazionale cui l’Italia aderisce.
In coerenza a questo metodo di “fisco responsabile”, proponiamo interventi finalizzati innanzitutto a favorire l’attrattività verso l’Italia di investimenti, a esercitare una energica spinta all’autofinanziamento per ripatrimonializzare le imprese, e a favorire gli investimenti di lungo periodo.
In materia di reddito d’impresa, differenziare l’attuale aliquota IRES abbattendola dal 24% al 17% sulla produzione di reddito, e aggiungendovi un eventuale 7% sulla distribuzione di dividendi: premiando così l’investimento di risorse proprie. E abbattendo la quota residua di IRAP ancora vigente.
In materia di redditi da capitale, premiare gli investimenti a lungo termine, modificando l’attuale regime di tassazione sui rendimenti finanziari e capital gain, riducendo le imposte per investimenti di medio-lungo termine e aggravandole per quelli di breve.
In materia di incentivi, occorre rendere strutturali gli attuali che sono vigenti solo a tempo determinato per la ricerca, investimenti tecnologici e in beni strumentali, sui relativi regimi di ammortamento e superammortamento, come sugli investimenti in formazione e a maggior effetto occupazionale.
Invece, dalle anticipazioni della manovra importanti incentivi risultavano addirittura soppressi: come quello relativo alla formazione collegata a Industria 4.0, agli investimenti al Sud e al rifinanziamento della legge Sabatini. Mentre anche per super e iper ammortamento è stata annunciata una rimodulazione restrittiva della platea delle imprese ammesse al beneficio.
E fate vostra invece la nostra proposta sull’IRPEF: oggi iperprogressiva sui soli redditi da lavoro dipendente e pensionistico. Nel nostro Libro Bianco trovate come portare da 5 a 2 le aliquote. Con una più ampia “no tax area” per la detassazione del “minimo vitale”. Indipendente dal tipo di reddito e quindi non solo come ora per i redditi di lavoro dipendente. E prevedendo anche il passaggio da un sistema di tassazione basato sulla persona fisica a uno basato sulla famiglia.
A questi quattro pilastri, si aggiungono altri importanti elementi. Una proposta di abbattimento dell’attuale altissimo cuneo fiscale. Una riflessione sulla necessità di perseguire la via del confronto tra grandi aree continentali per la definizione congiunta di una web tax, fuori da ogni impossibile e autolesionista via nazionale. Misure concrete per lo snellimento e l’equità dell’attuale cervellotico contenzioso fiscale.
E infine indicazioni per la lotta all’economia sommersa.
Siamo pronti alla sfida di far partire dal prossimo anno la fatturazione elettronica obbligatoria tra privati. E ci auguriamo che, di fronte a milioni di dati da processare a carico della piattaforma SDI e di AgEntrate, non si ripetano gli incresciosi incidenti che a ripetizione sono avvenuti nel 2017 con le diverse scadenze del redditometro.
Ma poiché con la fatturazione elettronica obbligatoria lo Stato otterrà ogni singolo dato in tempo reale al fine di abbattere elusione ed evasione IVA, a questo punto tutte le altre misure precedentemente assunte allo stesso fine devono venir meno: le comunicazioni trimestrali o semestrali obbligatorie, lo split payment, la reverse charge. Non possiamo continuare a usare le imprese in regola come bancomat di Stato, visto che i crediti IVA maturati ci vengono riconosciuti dopo anni.
Certo: le misure fiscali che proponiamo hanno bisogno di più anni, per essere adottate responsabilmente. Tagliando a copertura spesa improduttiva e rivedendo molte deduzioni e detrazioni attuali.
Ma quello che conta è il metodo complessivo. Non l’effetto a prescindere di maggior annuncio popolare. Non l’adozione di misure senza copertura, contando che con esse si determini un’aleatoria crescita del PIL.
È venuto il momento di progettare un fisco che metta al centro le esigenze prioritarie delle imprese e del lavoro. E che ci restituisca un sistema tributario allineato in prospettiva alle medie dei Paesi avanzati, senza per questo accrescere il debito pubblico.
È ora, il momento giusto per farlo.

CONCLUSIONI
Cari amici di Assolombarda, caro Vincenzo, caro Ministro Tria
Lo sappiamo, questo nostro proposito è molto ambizioso.
Dare una scossa all’intera società italiana.
Costruire dal basso nuova fiducia.
Promuovere i nostri giovani e non pensare solo a chi un reddito l’ha già.
Riequilibrare la finanza pubblica non perché ce lo dice l’Europa, ma perché sappiamo che è nostro primario interesse.
Tornare a credere nella forza della libertà e non in quella del paternalismo dall’alto.
Vincere la sfida dei mercati.
Radicare uno spirito pubblico da Paese vincente e non vinto.
Se mi chiedete sia velleitario, essere così ambiziosi, la mia risposta, e sono convinto sia anche la vostra. Ed è no.
Perché nulla consuma gli uomini tanto rapidamente come il risentimento.
Perché è più facile rinunciare a una buona ambizione che alle cattive abitudini, ma è mille volte peggio.
E perché, infine, è sempre più facile incolpare altri di vizi che sono anche nostri.
Per questo penso che non possiamo tirarci indietro. Parafrasando Churchill:
L'era dei rinvii, delle mezze misure, degli espedienti ingannevolmente consolatori, dei ritardi è da considerarsi chiusa. Ora inizia il periodo delle azioni che producono delle conseguenze.
Noi siamo responsabili di ciò che saremo.
E l’Italia che sarà vive oggi.
Nella nostra voglia di realizzarla.
Perché nostra è “La responsabilità del futuro”.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.