La pistola alla tempia
L'incubo del rating impone realismo e consapevolezza
di Enrico Cisnetto - 02 settembre 2018
È vero, Fitch non ha sparato. Ma niente illusioni: la pistola pronta a sparare il downgrade del rating sul merito di credito italiano è ancora carica, e il fatto che abbia modificato in negativo le attese, il cosiddetto outlook, significa che il dito è già sul grilletto. Aspetterà le scelte del governo prima di pronunciarsi definitivamente, Fitch, come già ha fatto Moodys che ha deciso di sospendere il suo giudizio. E, probabilmente, non ci sarà neppure bisogno di attendere la legge di Stabilità, ma per le agenzie di rating basterà leggere la nota di aggiornamento al Def, che al più tardi ha la scadenza del 27 settembre, perché non potrà non contenere gli intendimenti del governo su deficit e debito che poi rappresenteranno l’ossatura della manovra finanziaria. E, d’altra parte, che abbiamo la pistola alla tempia, con possibili conseguenze sia per la piazzabilità dei titoli del nostro debito pubblico sia sul sistema bancario, ce lo dicono i mercati, che hanno prodotto l’ennesimo balzo dello spread, arrivato a quota 293 punti, con il rendimento del Btp al 3,26%.
Inoltre, fanno temere il peggio anche le crisi valutarie in atto in Turchia, Argentina e Venezuela. Non perché siano così sistemiche su scala planetaria da far temere per l’euro, quanto perché, pur nella loro diversità, tutte e tre suonano come monito all’Italia a tendenza incoscientemente sovranista, indicandole con nettezza come pur con tutti i suoi difetti l’eurosistema rappresenti un ventre di vacca dentro il quale un paese a fortissimo indebitamento conviene stare riparato. Né può essere preso a detergente dei nostri timori – come qualcuno ha fatto, non si sa quanto furbastro o ingenuo – l’andamento dell’economia americana, che nel secondo trimestre è cresciuta (+4,2%) ben al di là delle previsioni, facendo stimare come raggiungibile l’aumento del pil del 3% che Trump aveva promesso in campagna elettorale. Ma il fatto che più d’uno nel governo gialloverde si ispiri al nazionalismo trumpiano non è motivo sufficiente per rendere comparabile la nostra economia a quella Usa.
Insomma, sono tante le ragioni per cui temere il peggio. Ma questo non autorizza nessuno a cedere al pessimismo. Semmai, dovrebbe indurre all’esame di coscienza chi dovrà mettere mano alla manovra di bilancio, prendendo consapevolezza che attuare la flat tax, il reddito di cittadinanza e la modifica della legge Fornero in assenza di coperture adeguate, avrebbe l’effetto di peggiorare pesantemente (e maldestramente) il deficit facendo sballare i conti pubblici. Così come dovrebbe indurre al ravvedimento chi crede di cavarsela individuando nell’Europa, nell’euro e nei mercati finanziari i capri espiatori di tutti i problemi italici, dimenticando che la maggior parte di essi sono assolutamente autoctoni.
Ma ci sono anche cose che, forse, si stanno facendo. Per esempio, scegliere la Cina come interlocutore privilegiato. Ancora non sappiamo gli esiti veri del viaggio a Pechino del ministro Tria, ma prendere atto che tra l’unilateralismo di Trump e l’imperialismo di Putin il dialogo con i cinesi è una buona alternativa. Come ha scritto l’economista americano Barry Eichengreen sul Sole 24 Ore, la prossima fase della globalizzazione sarà a guida cinese, e in una fase difficile come quella che stiamo per affrontare, esserne consapevoli e agire di conseguenza può essere decisivo. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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