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Cambiamenti e politiche

La tattica italiana in Europa

I nodi del Consiglio europeo e i rischi della strategia italiana

di Enrico Cisnetto - 24 giugno 2018

Il mondo gira velocemente, secondo un principio astrofisico a cui purtroppo l’Italia fatica ad adeguarsi. Prendete l’orizzonte europeo. Su migrazione e asilo il presidente della Commissione, Juncker, ha convocato un summit informale in vista del decisivo Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. L’obiettivo era un nuovo accordo a partire dalla chiusura dei confini esterni dell’Ue, la creazione di campi di smistamento in Africa e la possibilità di “rimpatrio” per i migranti che passano dal Paese di arrivo ad uno “secondario”. L’Italia ha minacciato di disertare il vertice e Merkel ha fatto “accantonare” la bozza. Ora, però, bisognerà trovare nuovi contenuti, e non sarà facile. Il rischio è che le regole restino le stesse, che gli Stati europei continuino a marciare separati e che le polemiche politiche prevalgano su interventi collettivi e strutturali necessari ad affrontare un problema epocale come quello delle migrazioni. Se la mossa italiana è stata una vittoria mediatica, non basta.

Anche sul piano economico, mentre noi ragioniamo sull’oggi, gli altri pensano al domani. Al vertice di fine mese, in cui si dovrebbe lanciare una nuova proposta di riforma della governance dell’eurozona – assolutamente necessaria – la Francia chiederà un bilancio europeo per gli investimenti contro le crisi degli Stati membri e l’assicurazione comune sui depositi, mentre la Germania proporrà l’istituzione di un Fondo Monetario Europeo che vigili e intervenga sui debiti pubblici. E un Fme guidato da una maggioranza franco-tedesca (più satelliti) potrebbe condizionare in modo eteronomo, e di molto, le politiche nazionali, a cominciare da quella italiana. L’Italia, invece, è costretta a chiedere tre cose di piccolo cabotaggio: la deroga dalla procedura di infrazione sui conti pubblici 2018 per evitare una manovra correttiva da 5 miliardi; l’estensione del deficit fino al 2% nel 2019 per disinnescare le clausole di salvaguardia; e, per il 2020, il rinvio di un anno del pareggio strutturale di bilancio.

Insomma, mentre noi pensiamo alla tattica, gli altri lavorano sulla strategia e, more solito, rischiamo di rimanere fregati. Perché si fa presto a dire di voler uscire dall’euro, ma la verità è che, nel caso, non solo finiremmo in un territorio inesplorato e minato, ma soffriremmo delle conseguenze della cosiddetta “quitaly clause”. Si tratta di una clausola che gli stranieri che comprano il nostro debito, e non solo quello pubblico ma anche quello privato derivante da rapporti commerciali, da qualche mese inseriscono nei contratti: in caso di uscita dalla moneta unica, il credito rimane esigibile in euro.

Tra l’altro, c’è molto altro da decidere e da tenere d’occhio. Per esempio, il ritorno a obiettivi opposti delle banche centrali. Come emerso al Forum di Sintra, infatti, dopo anni di comunione d’intenti, Bce e Fed hanno preso strade divergenti: Draghi lamenta un problema di mancata inflazione, Powell quello opposto; Francoforte rinvia l’appuntamento con il rialzo dei tassi, Washington lo anticipa; il tapering nell’Ue è ancora da chiudere, negli Usa è già il passato. Tutto questo, mentre il mandato di Draghi si avvia alla scadenza (ha ancora poco più di un anno) con Germania e Francia che già lavorano per la successione.

Mentre il mondo gira, l’Italia rischia di girare su se stessa. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.