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La campagna elettorale sulle tasse

Si fa presto a dire flat tax

La flat tax non è la panacea e non agisce sul lato offerta. Meglio misure fiscali mirate

di Enrico Cisnetto - 18 febbraio 2018

A dar retta al tam-tam della campagna elettorale, sembra che la flat tax, novello uovo di Colombo, sia la panacea di tutti i mali dell’economia italiana. Specie dopo che Trump ha spinto gli Stati Uniti in quella direzione. Ma sarebbe davvero la scelta giusta? Finora si è discusso se azzeri o meno la progressività fiscale – e qui ci ha pensato Luca Ricolfi, sgombrando il campo da una disputa tutta ideologica, a dimostrare che grazie alla “no tax area” una progressività, seppur minima, si crea – e sulle sue possibili coperture finanziare, considerato che di sicuro ci sarebbe un periodo più o meno lungo di “buco” nelle entrate dello Stato. Tema, quest’ultimo, su cui le indicazioni dei sostenitori della flat tax sono quantomeno vaghe, anche perché le stime sulle mancate entrate vanno da quelle minimaliste di Lega (30 miliardi) e Forza Italia (50), ai più realistici 72 miliardi calcolati dagli economisti de “La Voce.it”. Viceversa, non c’è dubbio che un’aliquota unica possa semplificare la giungla tributaria in cui ci siamo cacciati e favorire la fedeltà fiscale, anche se rimane indimostrato il fatto che nel lungo periodo i mancati introiti iniziali siano del tutto compensati, o addirittura più che compensati, da una minore evasione e da maggiori entrate per nuovi consumi e crescita della base imponibile.

Tuttavia, il vero problema della flat tax è un altro, di cui nessuno parla. Siamo sicuri che uno strumento che agisce in modo indistinto e solo sulla domanda, sia quello giusto? Il nostro strutturale problema, da un quarto di secolo, è molto più dal lato dell’offerta che non da quello della domanda. Gli ultimi dati Istat parlano di una crescita 2017 intorno all’1,5%. Benino, ma restiamo al di sotto della media europea, nonostante che il nostro export sia cresciuto del 7,4%, arrivando a 448 miliardi e a un saldo positivo di 47,5 miliardi, il più alto di sempre. Questi risultati straordinari, però, non sono propriamente “collettivi”, ma realizzati da una minoranza di imprese “campioni”. Al contrario, la stragrande maggioranza sopravvive, mentre qualcuno è un morto che cammina. Per questo abbiamo bisogno di politiche selettive dal lato dell’offerta, che possano sostenere ma soprattutto allargare la parte evoluta del nostro capitalismo, oggi troppo circoscritta, che corre, se non addirittura vola, e vanta tassi di produttività di livello europeo e atlantico perché ha puntato tutto sull’innovazione di processo e di prodotto, sulle tecnologie digitali e sull’internazionalizzazione del proprio business. Se ci sono dei soldi da spendere, cosa fattibile riqualificando la spesa pubblica, o se si decide di sforare il tetto del deficit – in questo caso compensando con un intervento una tantum sullo stock del debito – è bene usare quelle risorse in modo mirato. È troppo vasta la componente arretrata del nostro sistema economico (nel manifatturiero come nei servizi, per non parlare della pubblica amministrazione) per dare un beneficio fiscale a tutti, indiscriminatamente: campioni e brocchi, chi è produttivo e chi guadagna con le rendite, chi innova e aggredisce i mercati e chi tira a campare.

Insomma, l’idea della flat tax è affascinante, soprattutto per la semplificazione che è in grado di produrre. Inoltre rappresenterebbe un chock, e di una scossa c’è sicuramente necessità. Ma l’Italia ha bisogno d’altro. Purtroppo. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.