La lezione di Pirelli
L'esempio da seguire per uscire dal provincialismo: soldi stranieri, guida italiana
di Enrico Cisnetto - 10 settembre 2017
Il capitalismo italiano delle grandi imprese è sempre più povero, ma ci sono eccezioni che rincuorano. Due anni fa, con il momentaneo delisting dalla Borsa, molti si erano allarmati che un’altra grande azienda, la Pirelli, fosse finita in mani straniere. In effetti, da allora non è più “italiana al 100%”, ma in compenso è diventata una multinazionale con base, tecnologia e governance nostrane. Adesso, il recente annuncio di una nuova quotazione a Milano conferma che la partnership con i cinesi è stata funzionale alla separazione della produzione degli pneumatici per gli automezzi pesanti (di basso livello e meno remunerativa) da quella di alta gamma (con maggiori margini e prospettive di crescita), nel quadro di una strategia industriale di specializzazione e innovazione produttiva. Soprattutto, ha permesso di trovare le risorse finanziarie necessarie per competere nel mercato globale, che è il limite più grave del capitalismo made in Italy, perennemente a corto di equity.
Fino ad oggi, le operazioni prima con i russi di Rosneft e poi con i cinesi di ChemChina, hanno generato rilevanti incassi. A partire dal prossimo 4 ottobre, quando dovrebbe essere ceduto il 40% della controllante società “Marco Polo” – a privati e investitori istituzionali – secondo gli advisor si potranno ricavare fino a 3,5 miliardi. Nei piani, i cinesi di CNRC dovrebbero scendere dal 65% al 45%, la Camfin di Tronchetti Provera dal 22,4% al 10% e i russi di LTI dal 12,6% al 5%. Poi, a partire dal prossimo anno, sia i “vecchi” che i nuovi soci dovrebbero incassare dividendi pari al 40% del risultato fino al 2020. Questo grazie ad una crescita che alla Bicocca stimano possa essere del 9% medio annuo, per un’azienda il cui valore al netto del debito è stimato tra 7,6 e 8,7 miliardi. Ecco, se queste previsioni fossero confermate, sarebbe un risultato straordinario.
Certo, poiché i russi sono abilitati a vendere la loro quota dopo sei mesi (gli altri dovranno aspettare un anno), mentre Camfin potrebbe essere sciolta (come dagli accordi sul delisting del 2015), i futuri assetti proprietari sono incerti. Intanto, però, attraverso i nuovi accordi statuari, la sede a Milano, le competenze tecnologiche in mano italiana e la governance anglosassone (8 membri su 15 del consiglio indipendenti) sono blindati, poiché per le modifiche servirà più del 90% del capitale sociale. Inoltre, il ruolo di dominus di Tronchetti Provera è confermato fino al 2020, quando sarà lui stesso a gestire la successione.
Tutto questo evidenzia come in mercati geograficamente sterminati e finanziariamente spropositati, più che la proprietà in senso stretto, sia fondamentale la leadership e la localizzazione dei centri di decisione e di controllo delle tecnologie. Dopo le polemiche su molti marchi “cannibalizzati” da stranieri, la storia di Pirelli sembra dunque raccontare del giusto equilibrio trovato tra un mercato sempre più globalizzato (oltre il 90% del suo fatturato è all’estero) e un’Italia con qualche gioiello industriale ma con pochi mezzi. Tutti vorremmo che fossimo noi a fare shopping all’estero, ma la realtà racconta di rapporti di forza diversi, di fronte ai quali ci sono solo due strade: chiudersi in uno sterile protezionismo provinciale o stringere alleanze funzionali. Pirelli ha imboccato la seconda, trasformandosi da possibile preda in predatore. Imitiamola. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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