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I dati del pil

Crescita? Meglio parlare di ripresina

Non è vera crescita per l’Italia. Lo dicono i numeri al di là dell’incremento del pil

di Pierluigi Ciocca - 08 settembre 2017

L’incremento acquisito dal Pil italiano nella prima metà del 2017 rispetto al 2016 è dell’1,2%. Per l’intero anno 2017 l’incremento previsto dalla Banca d’Italia previsto è del 1,4%, ma di nuovo in lieve decelerazione successivamente (1,2% nel 2019).

La domanda globale nel primo trimestre del 2017 (valuteremo i dati della sua composizione nel secondo trimestre) è stata sostenuta dai consumi privati (forse per un po’ di reddito disponibile in più) e dalle scorte (volatili per natura). È stata frenata dalle importazioni (salite più delle esportazioni) e dagli investimenti (diminuiti). Questi i dati di una ripresa ciclica non consolidata nelle componenti della domanda, e mediocre, sia in assoluto sia nel confronto internazionale. Soprattutto, mediocre rispetto a un crollo che dai picchi ciclici trimestrali di dieci anni fa si commisura negli scarti negativi seguenti: -6,8% il Pil; -4,2% i consumi privati; -27% gli investimenti; -21,4% la produzione industriale; -2% l’occupazione; +7,1% le esportazioni (ma al di sotto del commercio mondiale).

Un incremento del Pil dell’1,4% nel 2017 è... preferibile all’incremento dell’1,0% del 2016. Persino i “gufi” più notturni debbono compiacersi di questo +0,4%.

Nondimeno, le “cinciallegre” più ottimiste – di cui i media abbondano, non solo grazie ai “pugilatori a pagamento”, sempre in eccesso d’offerta – abusano della parola «tendenza». Peggio, abusano della parola «crescita».

Tra due punti passa una retta, che può essere ascendente, come nel 2016-2017. Ma econometricamente ciò non basta a giustificare l’uso della parola «tendenza». La fase ascendente – modesta, incerta nelle determinanti fondamentali – di una estrema fluttuazione delle attività produttive non configura affatto, di per sé, una tendenza.

Ancor meno può usarsi la parola «crescita». Farlo è puro analfabetismo economico. Si ha crescita quando la progressione del prodotto, oltre a essere tendenziale (non ciclica), più che da un maggiore impiego del lavoro e delle altre risorse già disponibili ma sotto-utilizzate, scaturisce principalmente da intensificata accumulazione di capitale (al netto del deterioramento fisico e della obsolescenza tecnica dello stock), unita a ricerca, innovazione, progresso tecnico.

Non è purtroppo questo il caso dell’economia italiana oggi, nonostante la ripresina. La produttività langue su bassi livelli. Lo stock netto di capitale flette. Il prodotto orario del lavoro è diminuito sia nel 2015 sia nel 2016.

Chi gioisce per l’aumento degli occupati, fondatamente dal punto di vista sociale, deve anche considerare che se dal picco di dieci anni fa l’occupazione ha riavvicinato quei livelli il Pil è pur sempre del 6% inferiore. Quindi il prodotto per addetto - la misura più semplice della produttività - è tuttora del 6% più basso rispetto ad allora.

Continuano a mancare il risanamento delle pubbliche finanze, infrastrutture adeguate, un moderno diritto dell’economia, stimoli concorrenziali che costringano le imprese all’efficienza e all’innovazione, una politica per il Mezzogiorno.

Non è solo questione di parole...

 

Articolo pubblicato sul Il Sole 24 Ore dell’8 settembre 2017

 

 

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