Ecco la guerra commerciale
Siamo in una fase di de-globalizzazioni. Fasi che in passato sono sempre sfociate in guerre
di Giuseppe Pennisi - 01 marzo 2017
Stamo entrando in una pericolosa fase di deglobalizzazione. Pericolosa non solo in quanto commercio e movimenti di capitali, di aziende e di persone hanno sempre voluto dire un mondo più libero per tutti. Ma anche perché le precedenti fasi di deglobalizzazione, da fine Ottocento, hanno sempre portato a conflitti, anche armati e di grandi dimensioni.
Questa volta gli occhi sono puntati sugli Stati Uniti, che furono il motore sia della prima fase della globalizzazione (1870-1910), sia della seconda (dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri); e lo furono grazie al commercio internazionale e alle migrazioni, facilitate dal progresso tecnico nel settore dell’energia e dei trasporti. Questa volta, invece, gli Stati Uniti minacciano di essere i protagonisti della deglobalizzazione, proprio partendo dal commercio.
Non tanto per le promesse e le concessioni elettorali fatte dal presidente Usa durante la campagna presidenziale, quando il blocco sociale dell’elettorato americano è cambiato. Seguo queste tematiche da circa cinquant’anni (ossia da quando ero in università e a Villa Le Bocage a Ginevra si negoziava quello che sarebbe stato il Kennedy round of multilateral trade negotations). Se, per semplificare, dividiamo gli Stati Uniti in due blocchi elettorali, senza dubbio il Partito democratico rappresentava quello meno aperto alla liberazione degli scambi internazionali. Al contrario, il Gop repubblicano è sempre stato marcatamente più favorevole all’apertura al commercio mondiale.
Ci sono state ragioni storiche: i proprietari e gli operai al nord votavano per i democratici, ma chiedevano in cambio protezione per i propri prodotti, mentre il sud (sino a metà Ottocento e quindi alla Guerra di secessione) vivevano di esportazioni di derrate e, quindi, di libertà degli scambi.
Nei decenni, la composizione geografica e sociologica degli Stati Uniti è mutata. Oggi il Gop ha forti insediamenti in un nord in declino industriale; di converso, in estrema sintesi, il sud ha perso interesse per la libertà degli scambi mentre, essendo altamente tecnologico, uno dei suoi maggiori obiettivi è la tutela della proprietà intellettuale.
Si pensava che le dichiarazioni di Trump in materia di commercio elettorale servissero principalmente a raccattare voti. Invece, le prime promesse fatte in materia di politica commerciale sono state mantenute dal giorno del suo ingresso alla Casa Bianca; con un decreto presidenziale ha fatto uscire gli Usa dalla Trans-Pacific partnership (Tpp), vasto accordo commerciale e sugli investimenti, la cui ratifica da parte degli altri partner non era, peraltro, sicura. Con
l’uscita degli Stati Uniti, muore anche il Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), peraltro ancora in fase di non facile trattativa.
Nei trent’anni, però, anche le vie del commercio internazionale sono profondamente mutate. Nella catena del valore, ad esempio, tre Paesi sono strettamente legati: Usa, Cina e Messico. In un settore come quello metalmeccanico, ad esempio, gli elementi di base vengono fabbricati in Cina e da lì raggiungono gli Usa, dove vengono trasformati in componenti d’auto per l’assemblaggio finale in Messico. Questi stretti nessi nella catena del valore fanno sì che la guerre commerciali di oggi e domani saranno meno violente di quelle del XIX e XX secolo. Probabilmente, però, saranno più rumorose.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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