La verità sulle banche
Ritardi, rinvii, fuga dalle responsabilità. E ora arriva il conto
di Massimo Pittarello - 22 dicembre 2016
Veloce come il vento. In tre giorni il decreto sulle banche è uscito da palazzo Chigi, passato per le Commissioni ed è stato approvato da entrambe le Camere. E’ finalmente arrivata una decisione scontata e inevitabile, ma da troppo tempo rinviata.
Certo, spiegare ai cittadini che servono 20 miliardi di denaro pubblico, 347 euro a testa bambini compresi, per aiutare le banche italiane, non è interesse di nessun politico. Però, o si crede al vecchio adagio per cui “è più criminale fondare una banca che rapinarla”, oppure è evidente che non si può fare a meno del principale canale di collegamento tra la finanza e famiglie e imprese. In Italia specialmente, con l’85% dei finanziamenti che è di origine bancaria. Se saltano le banche salta l’intero sistema economico.
Ora, 20 miliardi, anche se contabilizzati sul debito e non sul deficit, sono una cifra importante. Ma l’eventuale fallimento degli aumenti di capitale in corso o prossimi di alcune banche italiane – in primis Mps, ma anche le venete Bpvi e Veneto Banca, le 4 già fallite, Banco Popolare unito a Bpm, senza dimenticare il gigante Unicredit – sarebbe assai più doloroso.
Per effetto del bail-in che in qualche caso dovesse scattare, ci perderebbero gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti sopra i 100 mila euro. Ma poi servirebbero altri soldi pubblici (a iniziare da quelli del Fondo Interbancario di Tutela) per rimborsare tutti gli altri depositi e per sostenere i redditi delle decine di migliaia di bancari che rimarranno senza lavoro.
Certo, i servizi alla clientela ormai prevalentemente “online” stanno rendendo obsoleti i tanti, troppi sportelli che ci sono in Italia. Gli istituti hanno un problema di “redditività”, come dice Draghi. Spesso i prestiti erogati sul territorio rispondono a logiche amicali e politiche più che economiche. E non sono mancate malversazioni e truffe. Tutto questo non permette, comunque, di mandare a gambe all’aria il sistema bancario italiano.
Per evitare il disastro delle quattro “fallite” (Etruria, Marche, Ferrara, Chieti) un anno fa sarebbero bastati tre miliardi (che c’erano). Ma il governo decise che era inopportuno politicamente. O meglio, mediaticamente. Ora questi soldi, senza le dovute fusioni e ristrutturazioni, serviranno a campare un altro po’. Ma più tardi è, peggio è.
Gli altri Paesi europei sono intervenuti tempo fa, mentre in Italia si lodava la “solidità del nostro sistema”. Secondo Bankitalia, dal 2008 per salvare le banche in Europa sono stati spesi 800 miliardi. Di questi 250 in Germania, 60 in Spagna, 50 in Irlanda e Olanda, 40 in Grecia, pari all’8% del pil (e solo 330 sono stati recuperati), mentre in Italia 4 miliardi per Mps, lo 0,3% del pil, tra l’altro restituiti integralmente con gli interessi al 9%.
Insomma, finora i contribuenti non ci hanno messo una lira. Ma intanto abbiamo scontato anni di credit crunch, 200 miliardi di sofferenze e 150 miliardi di crediti incagliati (il 20% dei 900 miliardi a livello europeo). La tattica del rinvio non è servita nemmeno a Renzi, che in estate ha defenestrato Viola da Mps per aprire la porta a Jp Morgan pur di cercare “capitali privati” che non sono arrivati e non arrivano. E ora la situazione è ancor più pesante.
Tra l’altro, il bilancio di Mps è in utile e, a detta dello stesso Draghi, le 130 banche sotto la vigilanza diretta dell’Eurotower stanno oggi meglio del 2009, con il capitale primario passato mediamente dal 9% al 14%. Ecco, c’è da dubitare che le regole di funzionamento del credito dell’Unione bancaria e gli stress test siano gli strumenti idonei per tenere sotto controllo la situazione. Anzi, in molti giudicano questi criteri contabilistici come controproducenti.
E ci sono stati molti altri errori, come alcune acquisizioni troppo spavalde (Antonveneta) o conversioni di obbligazioni “spintanee” (Mps). Altre volte la montagna ha partorito il topolino, come sui crediti deteriorati (Gacs 1 e 2) o sui fondi di salvataggio (Atlante 1 e 2). Oppure decreti, come quello sulle popolari o sul credito cooperativo, criticati a livello formale e criticabili sotto un profilo sostanziale.
“We don’t give up” disse Draghi. Dopo aver “comprato tempo” per i debiti sovrani, SuperMario l’ha acquistato anche per le banche. Solo che nel frattempo, oltre agli errori, è mancato ogni tipo di discorso di verità da parte della politica al Paese. E ora, pur di evitare un pesante burden sharing e relativo rischio contagio, abbiamo chiesto all’Europa la concessione di un 1,2% maggiore di debito. Non poco.
Ma già ci sono 31 miliardi di bond in scadenza da rifinanziare nel 2017. Gli investitori privati continuano a latitare, i titoli azionari fluttuano pericolosamente in Borsa. Adesso, il governo, per mano di Padoan, ha imposto ai politici che siedono in Parlamento di sottoscrivere una decisione inevitabile. Potrebbe essere l’inversione di marcia da un clima acchiappa consenso di “dagli al banchiere ladro” ad un doveroso principio di realtà. Speriamo, che nel tempo dell’inganno universale dire la verità, se non è un atto di rottamazione, sicuramente è atto rivoluzionario
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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