Da Industria 4.0 a lavoro 4.0
Quarta rivoluzione industriale, così cambia il modello di lavoro
di Enrico Cisnetto - 20 novembre 2016
Tic, timbrare l’entrata. Tac, timbrare l’uscita. Il già desueto rituale del “cartellino” è destinato al declino: orario, luogo e mansioni non sono più i criteri di misurazione del lavoro. Ai tempi di Uber e Airbnb, ma anche dell’italianissima Supermercato24 (i campioni del digitale esistono anche qui), insomma ai tempi di Industria 4.0, anche il lavoro necessita di un cambio di paradigma. D’altra parte, sono sempre meno le catene di montaggio e sempre di più i big data, l’intelligenza artificiale, le reti di collegamento tra sistemi automatizzati. In futuro, dice l’Onu, 7 lavori su 10 saranno svolti da robot, ed è proprio sulla paura del lavoro che manca e che sempre più mancherà che ha fatto leva Trump per vincere le elezioni. E il timore che la globalizzazione significhi dequalificazione e precarietà serpeggia anche tra gli italiani. Ansie cui va data una risposta.
D’altra parte, la quarta rivoluzione industriale può e deve essere compensata solo da una parallela ristrutturazione dei modelli di organizzazione del lavoro e di un know how che manca, specialmente sulle competenze digitali. “Dopo Industria 4.0, serve Lavoro 4.0”, ha giustamente detto il ministro Calenda, aggiungendo come corollario il necessario coinvolgimento dei sindacati. Che equivale a spingere per la contrattazione in grado di riformare il personale, adattarlo alla trasformazione tecnologica, garantire sistemi di formazione continua (lifelong learning): quella decentrata.
E se l’istruzione è fondamentale, il quadro normativo di riferimento non è da meno. Il Jobs Act per gli autonomi che deve essere approvato dalla Camera e i ddl depositati al Senato da Maurizio Sacconi (“Statuto dei Lavori” e “Disposizioni per il miglioramento della salute e sicurezza dei lavoratori”) cercano di dare una risposta alla realtà che cambia. E, secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, le imprese che adottano forme di “smart working” in un anno sono passate dal 17% al 30%. Attenzione, però, il lavoro agile non è semplicemente lavoro da casa, ma consiste nell’orientare la prestazione al risultato e non “al tempo”, garantire il diritto del lavoratore alla conoscenza, proteggere il professionista indipendente. Con il risultato di spingere quella produttività che è inchiodata a zero dal 2000.
I dati negativi dell’Inps sui nuovi contratti per i primi nove mesi del 2016 (-7,7% di assunzioni, +28% di licenziamenti) vengono paragonati all’anomalo 2015, ma sono in linea con il 2014 e gli anni precedenti, segno che, al netto dei 14 miliardi di incentivi, il Jobs Act non è la soluzione (ma neppure il problema, sia chiaro). Anzi, come spiega il professor Tiraboschi di Adapt, è una legge nata vecchia, perché costruita nella cornice del fordismo novecentesco, e che quindi non aiuta a recuperare il 25% di capacità produttiva perso con la crisi.
Intelligenza, merito, creatività possono costruire le nostre giornate lavorative in maniera diversa. E anche i modelli di sviluppo. Forse non per tutti, certo non subito, ma la tecnologia della quarta rivoluzione industriale offre potenzialità enormi: da una parte si esige reperibilità e risultati, dall’altra la scrivania è un optional. Insomma, produttività e libertà come le chiavi per sfruttare a pieno il capitale umano, la risorsa oggi più preziosa (e rara) sul mercato. Questo si che sarebbe un lavoro “smart”. (twitter @ecisnetto)
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