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Banche e mercati

Aboliamo gli stress test

Gli stress test sono assurdi e dannosi. La cura si fonda su una diagnosi sbagliata

di Enrico Cisnetto - 31 luglio 2016

Si chiama eterogenesi dei fini. È ciò che persegue con accanimento degno di miglior causa l’Europa dell’integrazione bancaria. E gli stress test – i cui esiti sono stati resi noti venerdì sera a Borse chiuse dopo che da giorni le indiscrezioni, più o meno pilotate, hanno alimentato la speculazione più sfrenata – ne sono al tempo stesso causa e conseguenza. Con il rischio che la forte volatilità dei mercati, dovuta a ragioni macro (eccesso di liquidità e fattori di incertezza, come la Brexit) sia alimentata dalle notizie sulle condizioni di salute delle banche, finendo così per aggravarla. Si prescrivono cure preventive per evitare che il paziente muoia in caso di malattie estreme, ma essendo queste cure basate su diagnosi sbagliate, applicate subito producono esse stesse malanni gravi. Con evidenti effetti distorsivi. Per esempio, venerdì sera tra i risultati (scontati) dei test dell’Eba e l’ok della Bce al piano di Fabrizio Viola che consentirà la messa in sicurezza di Mps, si è preferito dare in pasto all’opinione pubblica la (presunta) bocciatura anziché la definitiva salvezza.

Per questo, come hanno detto con esemplare chiarezza molti osservatori qualificati, da Angelo De Mattia a Donato Masciandaro, gli stress test, compiuti con bilanci statici e sulla base di scenari improbabili, non sono solo inutili, sono soprattutto dannosi, e dunque andrebbero aboliti. O meglio, andrebbero ripensati copiando dall’esperienza americana, che usa un sistema duale: crash test sulle banche, tenuti rigorosamente riservati, e stress test sulle variabili economiche macro, resi pubblici, e li incrocia.

Ma questa non l’unica cosa che dovremmo copiare dagli Stati Uniti. Se è vero che sul groppone delle nostre banche (anche quelle “promosse” dagli stress test) pesa una montagna di crediti deteriorati – che sono l’inevitabile conseguenza di otto anni di recessione, con dieci punti di pil e un quarto della capacità produttiva bruciati – è altrettanto vero che occorre ripensare, sia sotto il profilo culturale che giuridico, alla problematica dei crediti e del loro recupero. Al contrario di quello anglosassone, che salvaguarda il creditore, il sistema socio-economico e normativo italiano protegge il debitore, fino al punto da generare l’idea che se non paghi sei un gran furbo. Il risultato è che ci ritroviamo con un sistema creditizio che da un lato condanniamo per aver generato gli NPL (che sono N e valgono poco perché le banche non hanno strumenti adeguati di recupero), e dall’altra che biasimiamo per non erogare finanziamenti nonostante il quantitative easing, e con una classe imprenditoriale che in troppi casi si è abituata a fare business con soldi altrui nella consapevolezza di poterli anche non restituire senza gravi conseguenze. Il paradigma, invece, andrebbe rovesciato (come negli Usa): sono felice di prestarti i soldi (perché ovviamente ci guadagno) ma se non paghi piangerai amaro. E non perché il creditore è cattivo, ma perché è il sistema a punire il debitore.

Allora, cosa aspettiamo a mettere mano alla riforma del diritto fallimentare e superare così il comprensibile scetticismo degli investitori stranieri a prestare soldi agli italiani? È inutile alzare polveroni allarmistici sullo stato di salute delle nostre banche se poi non le mettiamo in condizione di risolvere i veri problemi strutturali che le affliggono. Inseguire continue ricapitalizzazioni è come riempire un secchio bucato. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.