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Le conseguenze del NO

I numeri della Grecia e Beckett

Tsipras non negozia, chiede solo eccezioni, rinvii e altri fondi. Senza offrire nulla in cambio

di Gianfranco Pasquino - 08 luglio 2015

Compulsando i dati di quella che è stata definita con tanta retorica “la vittoria del popolo greco”, qualcuno dovrebbe, anzitutto, chiedersi se i “sì” sono stati espressi dai turisti euro settentrionali oppure da un’altra parte consistente dello stesso popolo. I numeri contano. Eccoli: elettori 9.858. 508. Votanti 6.161.140. Voti NO 3.558.450. Percentuale del “No” sugli aventi diritto 36 o poco più: un “mandato” espresso dall’incirca un terzo degli elettori greci. Un mandato a dire “no” a proposte che, nei negoziati erano già state superate. Varoufakis se ne va in moto e, come se il Ministro dell’Economia da lui nominato avesse applicato una sua politica personale, Tsipras riprende a negoziare da dove aveva lasciato. Peggio, poiché la situazione greca si è inevitabilmente deteriorata. Applausi dalle “sinistre” sinistre europee, ma anche dalle destre, strange bedfellows, bizzarre compagne di letto, direbbero gli anglosassoni, che se ne intendono. Tsipras viene lodato come colui che, se vincesse, farebbe saltare il banco dei banchieri e dei tecnocrati, se non fosse che sia il Consiglio Europeo, formato da capi di stato che hanno vinto le elezioni nei rispettivi paesi, i quali non sono né più né meno legittimati di Tsipras, ma diciotto contro uno, sia la Commissione Europea, nominata da quei capi di governo, incluso il greco, pensano che gli impegni presi vanno onorati, anche per rispetto ai paesi che li hanno tradotti in politiche sgradevoli, ma in definitiva utili. Infine, smentendo in pratica tutte le critiche ai tecnocrati senza cuore, soltanto gli interventi del più importante dei tecnocrati, Mario Draghi, hanno finora tenuto a galla quel che rimane dell’irriformata economia greca. Ma, anche per il banchiere centrale, c’è un limite oltre il quale, in assenza di misure serie, non si può andare.

   Esaltato dagli applausi delle sinistre e delle destre nazional-populiste e dai commenti lacrimevoli di fin troppi giornalisti, Tsipras ha provato a ricominciare da dove aveva lasciato. Anzi, ha creduto che il suo nuovo inizio fosse rafforzato dal voto. Invece, quel voto “NO” prova soltanto che la maggioranza dei greci non ha capito che fuori dall’Euro nessuna moneta nazionale li salverà da un ulteriore peggioramento delle loro condizioni di vita dalle quali non uscirà senza l’aiuto dell’Unione Europea e senza una guida responsabile che non scarichi le sue inadempienze proprio sui suoi concittadini (e su ripetute svalutazioni).

   L’ultimo, almeno momentaneamente, inganno è probabilmente il più grave e il più fuorviante di tutti. Tsipras non sta affatto negoziando per imporre all’Unione Europea oppure all’Eurozona una politica di crescita e di espansione contro la politica di rigore e di austerity, alternative che, incidentalmente, non contrappongono verticalmente il Nord contro il Sud dell’Europa. Né lui né Varoufakis (né i loro affannati sostenitori al souvlaki) hanno mai argomentato nulla di tutto questo. Tsipras negozia soltanto per ottenere eccezioni, rinvii, proroghe, altri fondi senza offrire nulla in cambio. Di nuovo, ricorrendo all’inglese, more of the same, la stessa minestra malamente riscaldata. Naturalmente, questo non significa che la politica economica dell’Unione non debba essere cambiata, anche presto, anche a fondo. Non significa neppure che si debba lasciare andare a fondo la Grecia, i cui governanti, peraltro, Tsipras compreso, se lo meritano. Significa, invece, che le regole prima si rispettano, poi si cambiano convincendo i governanti democraticamente eletti che esistono regole migliori e più efficaci. Molto rabbuiato, l’irlandese Samuel Beckett ha comunicato al Ministero della Cultura greco che, se può servire a qualcosa, è disposto a cambiare titolo alla sua immortale pièce: En attendant Tsipras.   

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