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Tra populismo e rigore

La doppia anima del renzismo

Quando si vuole rottamare un sistema occorre avere idee, uomini, metodo e strumenti alternativi. Non solo il consenso

di Enrico Cisnetto - 05 settembre 2014

È interessante – finalmente – il dibattito che si è aperto in queste ore sul “renzismo”, di fronte al rapido cambio di umore che si sta registrando (nel Paese o nelle élite?) sulla figura del presidente del Consiglio. Ma per essere anche utile, questo confronto abbisogna di una messa a punto.

 

Partendo dalla diversità, apparentemente abissale, tra le risposte date da Renzi a Roberto Napoletano, in una bella intervista sul Sole 24 Ore, e quelle del sindaco renziano di Firenze, Nardella, al Foglio, si è definito – vedi Luca Ricolfi – populista l’approccio di Renzi, contrapponendolo all’altro, rigoroso fino a rischiare di essere impopolare. Per carità, la definizione ci sta, e il premier l’epiteto – perchè tale è – se lo è andato a cercare a tutti i costi. Anch’io, in questa come in altre sedi, ho battezzato populista il suo approccio politico, la gestualità e i toni, l’esasperata inclinazione mediatica, l’ostentata voglia di rottura con qualunque forma di organizzazione degli interessi. Ma più passa il tempo, e più mi convinco che non stia qui il vero limite di Renzi. Intanto, perché ci sono ragioni che militano dalla sua parte quando sostiene che non c’è scritto da nessuna parte che occorra governare “contro” o “nonostante” i cittadini. E pur essendo io un assertore della “indispensabilità democratica” del ruolo delle élite, sono d’accordo con Renzi quando indica la responsabilità che ha la vecchia classe dirigente, e l’establishment in particolare, del declino del Paese. Anzi, volendo essere più precisi, è la borghesia – incolta e ignara del suo ruolo sociale – che ha delegato alla “mediocrità rampante” il governo (si fa per dire) del Paese, producendo un disastro immane che solo il passare di qualche generazione potrà sanare. Quindi, non è certo affidandosi a presunti ottimati – tecnocrati o intellettuali che siano – che si può invertire la rotta. È la politica che deve avere la supremazia, e la politica, in democrazia, richiede necessariamente il consenso.

 

Detto questo, però, la vera questione riguarda le basi su cui si costruisce il consenso. Esso deve essere il mezzo con cui attuare il proprio progetto di società, e non il fine al cui ottenimento tutto piegare. Dunque, l’analisi del cosiddetto “renzismo” è utile nella misura in cui si focalizza sul progetto e, soprattutto, sugli strumenti con cui realizzarlo. Ed è qui che casca l’asino. Perché una serie di premesse politicamente rilevanti di cui Renzi si è fatto portatore e che in una certa misura ha imposto (specie al suo partito) non hanno generato, almeno finora, un progetto organico con cui identificarlo. Non si tratta di cose da poco: dalla fine dell’antiberlusconismo – che è servito solo a Berlusconi e a generare e arricchire una casta di professionisti anti-Cav – alla caduta di una serie di tabù ideologici della vecchia sinistra, per non parlare della smitizzazione della rappresentanza organizzata degli interessi, sindacati in primis. Peccato, però, che alla parte destruens non abbia fatto seguito quella costruens. Prima di tutto sul piano programmatico. E non mi riferisco tanto al vituperato “effetto annuncio”, che è prezzo da pagare alla dinamica del consenso nella società della comunicazione, quanto alla miccia corta del pensiero strategico, all’indifferenza verso i contenuti dei dossier – che si traduce nel fatto che la riforma del Senato o della legge elettorale è buona per il solo fatto che si realizza (per la verità si annuncia) visto l’immobilismo degli ultimi due decenni, a prescindere dal merito – e alla scarsa (per non dire inesistente) propensione all’uso di squadre di lavoro che preparino i dossier e di interlocutori d’esperienza e di pensiero con cui confrontarsi dialetticamente. Ma assai poco costruens è anche la modalità organizzativa e del metodo di lavoro. Il caos che regna nella struttura dirigenziale di palazzo Chigi, l’abitudine a non scrivere le leggi in via definitiva prima della loro approvazione, la cronica mancanza delle norme attuative, l’inevitabile chiusura a riccio della burocrazia ministeriale – giustamente messa sotto accusa da Renzi, ma bisogna averci l’alternativa altrimenti si creano vuoti spaventosi – sono tutti segnali di una non capacità di tradurre le scelte in norme operative. È vero che il duo Monti-Letta aveva lasciato in eredità la mostruosa cifra di 899 decreti non attuati e che ora si sono ridotti a 528, ma nel frattempo se ne sono aggiunti 171 della gestione Renzi, e il numero di 699 complessivi è ancora indecentemente alto.

 

Quando si vuole rottamare un sistema, anche se già collassato – anzi, proprio perché è defunto – occorre avere idee, uomini, metodo e strumenti alternativi. Renzi cerchi pure il consenso – magari risparmiandoci sceneggiate come quella del gelato, che peraltro il consenso glielo fanno calare – ma si convinca che a questo vuoto deve pensare e subito. Se lo farà, coniugherà il consenso con la capacità di governare. Altrimenti sarà peggio per lui. Ma anche per l’Italia, purtroppo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.