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I dati Istat parlano chiaro

L'economia rottama Renzi

Cresce il debito e calano inflazione e produzione industriale: siamo tornati in recessione?

di Enrico Cisnetto - 18 luglio 2014

Non ci siamo. La scossa che il Paese attendeva, e sul presupposto della quale si è costruita la ripresa della fiducia di famiglie e imprese – importantissima sul piano della tenuta sociale – non è arrivata, e ora tutto sembra ancor di più maledettamente in salita. Il ministro Padoan, poco avvezzo alle sparate mediatiche, ci comunica che la ripresa è lenta, eufemismo per dire che non è neppure partita, e oppone un “no comment” all’ipotesi di una manovra correttiva dei conti pubblici, che poi un po’ penosamente è costretto a trasformare in un “no, non c’è nessuna manovra in arrivo”. Al presidente di Confindustria Squinzi, che da tempo sembra mordersi la lingua per evitare di sbottare, scappa detto che “il tempo per riforme concrete, profonde, incisive, a 360 gradi, è ormai agli sgoccioli”, che è un modo per manifestare scontento per quanto fin qui non c’è stato. Può essere che l’Istat fra poco ci comunichi che nel secondo trimestre il pil abbia fatto +0,2% anziché quel -0,1% che sommando all’analogo risultato dei primi tre mesi ci avrebbe riportato in recessione (per la verità altre voci dicono che comunicherà lo zero senza virgola, così giusto per evitare il segno meno, ma niente di più), ma è dal fronte della produzione industriale che giungono i segnali maggiormente preoccupanti. Per maggio l’Istat ha già certificato il peggior risultato da novembre 2012, con un calo dell’1,2% su aprile (dell’1,5% per il manifatturiero puro) e dell’1,8% sull’anno precedente. Considerato che nel primo trimestre la caduta era stata dello 0,9% e pur mettendo in conto che per giugno Confindustria stima un aumento dello 0,7% su maggio, è plausibile che nel secondo trimestre si arrivi ad un ulteriore riduzione dello 0,5% sul precedente, e che dunque questa dinamica metta a rischio la possibilità di un recupero, seppure marginale, del pil nella prima metà dell’anno. È ormai evidente, quindi, che gli otto decimi di punto di crescita previsti nel Def dal governo – peraltro del tutto insufficienti a farci rialzare la testa, visto che dal 2008 di punti di pil ce ne siamo mangiati 9,4 – sono una chimera e che nel migliore dei casi si chiuderà il 2014 con il +0,4% predetto dall’Istat (ma occorrerebbe una seconda parte dell’anno brillante, ad essere realisti è più probabile la metà). Insomma, c’è da essere preoccupati, molto preoccupati. E non solo perché tutti i dati economici (persino l’inflazione allo 0,2%-0,3% è un problema grosso) sono talmente negativi da spezzare i sogni di ripresa anche dei più inguaribili ottimisti – a proposito, questi ultimi, signor presidente del Consiglio, sono i veri “gufatori” – ma soprattutto perché, mentre la positiva congiuntura internazionale a cui ci siamo aggrappati in questi mesi sembra volgere al termine, rischiamo che la speculazione finanziaria torni a colpirci.

In questo quadro, con la coperta corta che ci ritroviamo addosso della ripresa che non c’è e delle risorse che il rispetto dei vincoli europei ci impedisce di disporre, l’unica chance che abbiamo è sparigliare il gioco. Come? Certamente non tirando la giacca a Bruxelles e a Berlino per ottenere qualche margine di manovra in più, come, per esempio, usare i fondi Ue inutilizzati (nel 2013 ne abbiamo usati solo poco più della metà di quelli di cui avevamo diritto, ultimi in classifica insieme con la Romania). No, qui dobbiamo mettere in campo una doppia manovra. Da un lato, l’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico di cui si parla ormai da troppo tempo – e che anche Delrio ultimamente ha evocato, anche se non si capisce se a titolo personale o a nome del governo – finalizzata sia all’abbattimento una tantum di una fetta dello stock di debito sia all’acquisizione di risorse per fare investimenti pubblici e favorire quelli privati abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto ad esso connessi, e di portare – come ha giustamente suggerito in un ottimo intervento sul Sole 24 Ore il viceministro Calenda – dal 30% al 50%, come la Germania, la quota di export sul pil. Gli strumenti sono ormai individuati, e lo stesso Calenda gli riassume efficacemente, riassumibili nella magica parola “riforme strutturali”. Il postulato è quello ripetuto più volte in questa rubrica: la crisi non si supera dal lato della domanda – che più di tanto non si fa stimolare e che comunque richiederebbe risorse che non abbiamo – ma agendo da quello dell’offerta, che deve essere ripensata partendo dal presupposto che essa deve soddisfare i consumatori del mondo e non più soltanto quelli italiani. Si tratta di rimuovere le cause di contesto che frenano lo sviluppo, specie quelle che hanno a che fare con la pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, così come di favorire il ridisegno di interi settori (turismo, filiera agro-alimentare, energie rinnovabili, utilities, trasporto e logistica, facility management, solo per citarne alcune) e la moderna infrastrutturazione, materiale e immateriale, del Paese. Attendiamo segnali. Anche a Ferragosto.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.