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Riprendiamo la via delle riforme

È ora di agire

Esiste la possibilità di far funzionare il governo, di non farlo vivacchiare fra galleggiamento e agguati?

di Davide Giacalone - 01 ottobre 2010

La fine della legislatura può essere immediata o naturale, il problema è quel che succede adesso, subito. C’è, in giro, troppa concitazione e altrettanta confusione, al punto che non solo sfuggono elementari considerazioni politiche, ma si giunge a falsificare le realtà processuali. Diciamolo subito e togliamoci il fastidio da torno: l’ipotesi che, qualora la Corte Costituzionale cancelli la norma sul legittimo impedimento, Silvio Berlusconi si ritroverebbe immediatamente condannato, nel processo relativo alla corruzione di David Mills, è una bufala. Quel processo deve ancora svolgersi.

La dimostrata corruzione di Mills non significa che sia scontata la sentenza sul presunto corruttore (giacché, sia detto in via scolastica, con quella sentenza definitiva è certo il fatto della corruzione, ma non l’identità del corruttore). Anche il più remissivo e sprovveduto degli avvocati sarebbe in grado di menare il can per l’aia, per non meno di un anno. Il problema, semmai, sono quelli aggressivi e pasticcioni. Quindi: che si debba votare entro marzo per evitare che Berlusconi passi a fare il galeotto è una cretinata.

Non si deve andare oltre, nel chiamare gli elettori alle urne o nell’assicurare vitalità e futuro all’attuale governo, per un’altra ragione: ad aprile inizia la sessione di bilancio europea. Le nuove regole stabiliscono che i conti di ciascun Paese saranno esaminati, sotto la duplice luce del rispetto delle compatibilità e delle politiche correttive e di sviluppo, in sede collegiale, Se, a quell’appuntamento, l’Italia (che ha il più alto debito) arrivasse senza un governo nella pienezza dei poteri, senza un ministro che possa parlare del futuro, ci farebbero neri. Ecco perché dobbiamo sbrigarci.

La domanda è: esiste la possibilità di far funzionare il governo, di non farlo vivacchiare fra galleggiamento e agguati? All’inizio del giugno 2009 (perdonate la bassezza autocelebrativa) cominciai a scrivere che, dopo appena un anno dalle elezioni, c’era il rischio di veder cominciare la fine della legislatura. Allora non c’erano scissioni in corso, non era stata posta la questione della democrazia interna al partito di maggioranza e nessuno (tranne l’inquilino e i suoi congiunti) s’occupava d’appartamenti monegaschi.

Ma già era ferma la locomotiva delle grandi riforme. Già era ricominciata la guerra nella trincea giudiziaria. Già lo sguardo era corto. Lo ricordo perché non si deve cadere nell’errore di credere che le divisioni correntizie e personali siano la causa della disillusione, semmai ne sono una delle conseguenze. Riprendere la via delle riforme, allora, non dipende dalla contabilità parlamentare, ma dalla volontà politica.

Si vuol puntare alla fine naturale della legislatura? Benissimo, allora si dia sostanza alle parole del presidente del Consiglio, che ha detto di rivolgersi all’intero Parlamento, si dia corpo al suo richiamo (ieri, al Senato) ad una stagione “costituente” e si portino nelle Aule i testi su cui dibattere e lavorare. Sappiamo tutti che quello della giustizia è un terreno delicato e difficile, si cominci da quello. Subito. Si costringano i diversi gruppi e i singoli parlamentari a misurarsi con la volontà, effettiva e immediata, di separare le carriere, com’è in tutto il mondo civile.

Noi siamo l’eccezione, pessima. Salteranno i nervi alle corporazioni, s’infiammeranno le parole dei trinariciuti giustizialisti, ma saranno solo manifestazioni d’isteria reazionaria, se dall’altra parte ci sarà volontà di cambiamento. Se non lo si fa, e spetta alla maggioranza farlo, spetta al governo, allora vuol dire che si punta a vivacchiare, allungando, di poco, quella fine già da tempo iniziata. In quel caso servirà a poco compitare elenchi delle cose fatte, perché si sarà smarrito il senso del fare.

In un condominio in cui piove acqua dal tetto serve a poco che l’amministratore si dilunghi su quanto s’è adoperato per la cassetta delle lettere o per la continua e tempestiva sostituzione delle lampadine. E’ sempre vero che le cose potrebbero andare peggio, ma anche che potrebbero andare meglio. Non si tratta di non riconoscere il lavoro fatto (in un sistema sano lo riconosce anche l’opposizione, ripartendo da quello per proporre nuovi approdi), ma di non credere che tempistica e risultati siano soddisfacenti.

Se lo si farà, se la maggioranza porterà in Parlamento le grandi riforme, anche costituzionali, è possibile che mieta successi, coinvolgendo quanti vorranno starci, come è possibile che si perda. Poco male. Il voto del Senato, ieri, ha dimostrato che non si può fare alcun governo che prescinda da quel che resta del centro destra cui gli elettori diedero la maggioranza dei voti. Anche qui, è bene capirsi: tutti scrivono che i finiani sono determinanti, e allora? Lo sono anche i leghisti, lo è anche Berlusconi con i suoi.

Una maggioranza è autosufficiente quando è coesa, se perde quella condizione è già stato tradito il mandato elettorale, ed è evidente che ciascun pezzo che la compone pretenderà di far pesare il proprio essere decisivo. Prima di entrare in un tale mercato delle vacche legislative, meglio tornare alle urne. Con il vincolo di marzo, per la ragione già ricordata. Due giorni di dibattito parlamentare ci hanno restituito una pessima sensazione: troppi parlamentari non sanno stare in Parlamento, non sanno interpretare il loro ruolo e le uniche voci che si sono sentite, stonatissime, sono quelle che parlavano a chi era fuori dalle Aule.

Nel mondo digitale e nel mercato globale anche il tema della rappresentanza deve essere rimeditato. Di sicuro, però, continuare a promuovere questa genia d’eletti per caso serve solo a rendere pericolante il ruolo stesso del Parlamento.

Pubblicato da Libero

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