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Il dubbio amletico di molti italiani

Voto o non voto?

Ecco i sette motivi che concorrono a creare il distacco tra gli elettori e le urne

di Enrico Cisnetto - 11 aprile 2008

Dare retta a Luca Ricolfi, che ci ha ineccepibilmente spiegato perchè il “non voto” non solo è un degnissimo modo di votare (nel senso di esprimere il proprio consenso/dissenso) ma perchè in questo momento è anche la migliore delle scelte possibili, o raccogliere dal saggio Emanuele Macaluso il suggerimento di preferire un partito “minore”, cioè al di fuori del duo Pd-Pdl, visto che sono due partiti “grandi” ma non due “grandi partiti”? Per quello che mi riguarda, alla vigilia delle elezioni, “this is the problem”, ma ho idea che si tratti di un dilemma con cui sono alle prese milioni di italiani. Mai come in questo momento, infatti, è netta la sensazione che chi si muova al di fuori di scelte ideologiche – che per fortuna sono sempre più marginali – e consideri la (ragionevole, non brutale) semplificazione del quadro politico una necessità, abbia grande difficoltà a compiere un atto razionale quale dovrebbe sempre essere il voto.

Ed è fortissima la percezione che ci sia un insanabile contrasto tra la crescente preoccupazione per le condizioni in cui versa il Paese, che denuncia il suo peggiore stato di salute dal dopoguerra in poi, e la mancata presa di coscienza da parte della politica del fatto che siamo un paese retrocesso e depresso, condizione a fronte della quale nessuno si è assunto la minima responsabilità, nessuno ha mostrato una qualche capacità e volontà progettuale. Insomma, siamo di fronte ad un clamoroso caso di mancata coincidenza tra domanda e offerta, cosa che rende anomalo il “mercato” elettorale.

Ci sono almeno sette motivi che concorrono a creare questo distacco tra gli elettori e le urne. Primo: il sistema elettorale, che è pessimo vuoi perchè usa lo strumento del premio maggioranza, che fin qui ci ha regalato coalizioni fatte per vincere ma non per governare, vuoi perchè senza le preferenze perpetua le oligarchie. Secondo: la scarsa credibilità dei due maggiori partiti, sia perchè non hanno nulla di democratico, nati come sono intorno ai gazebo e con “primarie all’amatriciana”, sia perchè hanno introiettato al loro interno tutte le contraddizioni che erano tipiche delle vecchie fallimentari coalizioni. Terzo: l’altrettanto scarsa credibilità dei leader che quei due partiti capeggiano. Uno vecchio e logorato, l’altro capace solo di riproporre la “dittatura del leaderiato” di stampo berlusconiano come strumento di affermazione politica. Quarto: la pena che suscitano le liste dei candidati. Quinto: la totale inadeguatezza dei programmi, sia in termini di analisi che di proposta, rispetto alla gravità, urgenza e complessità dei problemi che dobbiamo risolvere. Sesto: la repulsione che suscita il linguaggio politico, rimasto ancorato alla modalità “emozionale” (ora vi facciamo sognare) che ha pagato nel passato, mentre ora il cittadino pretende autocritica e vuole sentirsi spiegare come, quando, con quali soldi e quali competenze si risolveranno i problemi. Settimo: la stanchezza per una campagna elettorale che ha subito abbandonato il (finto) bon ton della prima ora, per ripercorrere il logoro schema della contrapposizione frontale, della delegittimazione (vedi la questione brogli), del rincorrersi di promesse insostenibili.

Il risultato di tutto questo è che lunedì chiunque avrà vinto, non avrà convinto (e tanto più sarà scarso il convincimento, tanto maggiore sarà la probabilità del “pareggio”). E senza il consenso “vero”, tanto più in una società corporativa come la nostra, forse sarà anche possibile “stare al governo” ma di certo sarà impossibile governare. Altro che la tanto sbandierata diversità per via delle “novità” di Pd e Pdl, altro che il rinnovamento che avrebbe dovuto smontare il sentimento di anti-politica che alberga nel cuore degli italiani, queste elezioni hanno già un risultato scontato: non saranno la risposta alla “crisi italiana”, non risolveranno i problemi di declino e di degrado del Paese.

Tuttavia, ad almeno una cosa queste elezioni servono: a chiudere definitivamente il fallimentare quindicennio della Seconda Repubblica. Perchè una cosa è certa: quelle del 13-14 aprile 2008 passeranno alla storia come le ultime elezioni di questa sciagurata stagione politica. Prima di tutto perchè, per le ragioni che abbiamo visto, la prossima legislatura non servirà a risolvere i problemi vecchi e nuovi del Paese. E poi, perchè la prossima volta non ci sarà più Silvio Berlusconi: infatti, o la legislatura durerà poco e allora, politicamente sconfitto, non potrà ripresentarsi per la sesta volta al cospetto degli elettori, o durerà, e allora ulteriormente invecchiato e con la prospettiva più vicina del Quirinale, avrà altri motivi per star fuori. Ma avendo il Cavaliere caratterizzato in modo decisivo il “bipolarismo all’italiana”, e considerata la condizione di non ereditabilità del Pdl – il che provocherà un vero e proprio cataclisma anche a sinistra, dove la separazione tra le “due sinistre” è solo l’inizio di un processo di trasformazione epocale – è evidente che la sua uscita dal mercato del consenso è destinata a cambiare tutto.

Insomma, queste elezioni non saranno le prime della Terza Repubblica, purtroppo, ma contribuiranno a creare le condizioni per renderla possibile. Per questo che, alla fine, Ricolfi e Macaluso per me pari sono. Ciò che importa è non mancare l’appuntamento con il “dopo”. Che decorre già dal 15 aprile.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.