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Ricette anticrisi

Voglia d'Iri

Servono nuovi modelli di sviluppo, politiche industriali e strumenti operativi di investimento

di Enrico Cisnetto - 18 gennaio 2013

“AAA Voto offresi a chi propone trasformazione Cdp in Nuova Iri”. Non è una provocazione: mi viene davvero voglia di mettere all’asta il mio voto alle prossime elezioni, promettendo di darlo a chi avrà il coraggio di rompere il tabù della presenza pubblica nell’economia e, di fronte alla prospettiva del prolungamento per un altro anno (intero) della recessione che dal 2008 a oggi ci ha già mangiato sette punto e mezzo di pil (al netto della ripresina del 2010-2011), dirà chiaramente agli italiani che se vogliamo uscirne occorrono tre cose: un nuovo modello di sviluppo, che indichi quale ruolo potrà svolgere nei prossimi anni l’Italia nell’economia globalizzata, una politica industriale, che quel modello metta in atto, e degli strumenti operativi, di cui il principale non può che essere la creazione di un istituto che, come l’Iri negli anni Trenta e dopo la guerra, sia il volano di investimenti sia infrastrutturali che manifatturieri.

Naturalmente escludo di dare il voto a chi, a destra come a sinistra, sia privo di cultura di mercato e quindi colga la mia proposta in chiave statalista e assistenziale. Ma il mio problema è che né i riformisti né i moderati non hanno uno straccio di proposta in questa direzione, e ancora una volta si limitano a ripetere la litania delle piccole imprese spina dorsale della nostra economia. Senza capire che la straordinaria moria di aziende cui abbiamo assistito – e che ha prodotto oltre mezzo milione di disoccupati in più, una quantità record di ore di cassa integrazione e la demoltiplicazione esponenziale delle possibilità dei giovani di trovare lavoro – non dipende solo dalla doppia crisi finanziaria (prima quella mondiale, poi quella europea) ma anche e soprattutto dalle conseguenze del processo di integrazione globale delle economie, e dunque non è destinata ad esaurirsi con la ripresa internazionale. E che, di conseguenza, ad essa non si può rispondere con politiche “normali” basate su logiche conservative.

I dati sull’export dimostrano che il capitalismo italiano è di fatto abbarbicato ad un gruppo di imprese straordinarie che hanno conquistato i mercati nel mondo – guardatevi, per esempio, i dati forniti ieri sullo sviluppo di Pasta Zara, secondo produttore italiano e primo esportatore europeo e mondiale di pasta – ma che per numero e dimensione (il nostro export non è neppure un terzo del pil) non possono reggere sulle loro spalle un paese che fa 1500 miliardi di pil e ha costi (debito in testa) tarati per duemila. E non basta sperare nella ripresa dei consumi interni. Primo perché con il solo auspicio non ripartiranno, e poi perché comunque strutturalmente dobbiamo convertire una parte cospicua del pil dalla dimensione interna a quella estera, cosa che si può fare solo rafforzando la nostra capacità esportativa (giusto l’obiettivo del ministro Passera di passare da 470 a 600 miliardi entro il 2015).

Se a questo si aggiungono almeno altre tre necessità imprescindibili – aumentare notevolmente la dimensione media di tutte le imprese; trasformare il turismo in una vera industria; modernizzare le infrastrutture materiali e immateriali – risulterà chiaro anche ai ciechi che il nostro capitalismo, tanto dal lato della manifattura quanto da quello dei servizi, deve essere sostanzialmente ripensato. C’è dunque bisogno di un modello cui tendere, di una strategia (la politica industriale) e di investimenti. E chi oggi ha la disponibilità di denaro necessaria (e altra gliene si può far affluire, se si converte spesa pubblica corrente in spesa per investimenti e se si mette a frutto il patrimonio dello Stato) se non la Cassa depositi e prestiti? D’altra parte la Cdp si è già mossa nella giusta direzione, direttamente e attraverso strumenti ben gestiti come Simest, Sace e il Fondo Strategico, e indirettamente con la partecipazione in F2i, il fondo guidato da Vito Gamberale. Soggetto che più di tutti (e spesso in splendido isolamento) ha lavorato in questi anni per razionalizzare alcuni settori strategici, dalle infrastrutture di trasporto (aeroporti, autostrade, interporti, terminal ferroviari) alle reti (elettricità, gas e acqua, tlc) passando per le energie rinnovabili, e che ha titolo per essere player decisivo nella costruzione del nuovo capitalismo.

Ma c’è un tabù ideologico che impedisce di fare il salto verso la creazione di una holding di partecipazione, nonostante che per statuto Cdp non possa fare salvataggi e quindi tutte le ansie di chi teme la creazione del carrozzone pubblico salva aziende decotte siano infondate. Anche perché, come ho cercato di spiegare, la filosofia non deve per nulla essere quella di conservare l’esistente. Beh, almeno se ne parli dopo le elezioni, se la campagna elettorale impedisce, come al solito, di usare i polmoni a danno del cervello.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.