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I rapporti di Confindustria e Confcooperative

Voci autorevoli contro il declino

Anche da imprenditori e cooperative arriva l’allarme sul Sistema Italia

di Enrico Cisnetto - 29 aprile 2005

Uno sguardo dentro e oltre il declino. Arriva, finalmente, da due “pezzi” importanti dell’economia nazionale, Confindustria e Confcooperative. E cosa ancor più importante, alla solita sfilza di cifre che attestano la nostra perdita di competitività si aggiunge un’analisi delle cause strutturali della stagnazione permanente che coinvolge direttamente la responsabilità del sistema politico. Il check up di Confindustria sulla competitività ci spiega come ormai il declino si possa misurare sul reddito di tutti gli italiani (in vent’anni quello pro capite è sceso dall’80% al 70% della media americana) e che gli indicatori della competitività presente e futura (costo delle materie prime, ma anche investimenti in ricerca e formazione delle nuove generazioni) “minacciano” ulteriori peggioramenti.

Ancor più interessante è la cifra del ragionamento di Luigi Marino, presidente di Confcooperative, nella sua relazione all’assemblea annuale dei suoi associati (davanti ad un Luca di Montezemolo ascoltatore concorde e interessato e un Savino Pezzotta pienamente in linea). Marino ha invocato un’operazione verità, e nell’aprire gli occhi alla realtà è venuto fuori un elenco agghiacciante: l’economia non riesce più a sfruttare la scia della ripresa mondiale; il gioco del mercato con i paesi emergenti ci vede perdenti; abbiamo debolezze e limitazioni strutturali antiche e recenti non ci fanno reagire con velocità sufficiente; le tradizionali scorciatoie della competitività italiana, come le svalutazioni, sono inservibili; il nostro sistema sarà pur ricco d’imprenditori ma scarseggia di competitori di dimensioni globali; serve una maggiore concorrenza – che non è arrivata dalle privatizzazioni fatte per cassa – ma non sarà la mano invisibile del mercato a risolvere tutti i problemi. Infine, l’integrazione europea ha ridotto la sovranità nazionale, ma che comunque da soli saremmo troppo piccoli per farci valere. Così esplicitate e messe in relazione le une con le altre, non troverete queste considerazioni in nessuno dei programmi delle forze politiche oggi in campo (anche se è proprio lì che dovrebbero essere). Maggioranza e opposizione ne accettano qualcuna, ma solo in funzione strumentale, per attaccare o difendere l’altra parte. E’ proprio qui che arriva la parte più lungimirante, per molti versi coraggiosa, della relazione di Marino: definire il nostro un “bipolarismo infantile”, e indicarlo come la causa del declino del Paese. La contrapposizione continua con l’altra parte, la necessità di mettere insieme coalizioni eterogenee che porta contemporaneamente alla rigidità del programma (vedi la “cambiale” federalista che la Casa delle Libertà sta pesantemente pagando alla Lega) e agli attriti interni. Propaganda declinista, obietterà qualcuno, per favorire l’opposizione di turno o per pietire nuovi soldi pubblici. Discorso che non vale per le cooperative, specie quelle “bianche” rappresentate da Confcooperative, che in un’economia in via di disfacimento tengono bene, occupando tre milioni e mezzo di persone, generando un fatturato da 43 miliardi di euro e con una solidità economica rappresentata dalle Banche Cooperative (l’anno scorso hanno raccolto 92 miliardi di euro di risparmi). E che, buon peso, si sono fatte carico di rimettere nel circuito economico i resti di avventure poco presentabili del capitalismo privato tradizionale (Eridania e Cirio). Ebbene, da questo mondo che coniuga profitti e solidarietà, sottovalutato sia dai tardo-statalisti che dai turbo-liberisti, guarda caso non esce il solito “elenco della spesa”, fatta magari di qualche singolo provvedimento corporativo o di emendamenti da inserire nella prossima Finanziaria: l’agenda delle richieste rivolte alla politica sembra piuttosto nascere dalla consapevolezza che il modello di sviluppo attuale ha esaurito la sua funzione e che occorre avere lucidità e coraggio per cambiarlo. Nella consapevolezza che oltre alla buona volontà degli imprenditori e alle forze acefale del mercato, ci vuole la mediazione dell’interesse generale rappresentato dalla politica. E allora è necessario che chi ha ricevuto l’onere del governo individui settori in cui è più urgente la riorganizzazione in base agli standard imposti dal mercato globale e per questo sviluppi incentivi e leggi che spingano in quella direzione. Per esempio, aumentando la spinta alla concentrazione, sia in senso classico della fusione tra aziende, sia in senso più moderno attraverso modelli reticolari. Oppure lavorando sulla leva più immediata, quella fiscale, evitando che punti a generiche quanto elettoralistiche riduzioni, ma facendo in modo che cali la dimensione del cuneo fiscale, che tra l’altro penalizza allo stesso modo lavoratori e imprese. Insomma, ciò che la classe imprenditoriale – quella tradizionale e quella cooperativa, non casualmente all’unisono – chiede con sempre più insistenza, è una vera politica economica e industriale, un tassello che da troppo tempo manca al governo di questo Paese. Quello che non vuole, invece, è una campagna elettorale lunga un anno (diventerebbero 30 mesi, partendo da quella per le europee non più interrotta), pronto a denunciare questo sistema bipolare come la causa. Non è cosa da poco, se si pensa che fu proprio l’establishment imprenditoriale a far nascere questa benedetta Seconda Repubblica. Sbagliò allora, non sbaglia oggi.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.