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Public Policy

I mali della democrazia italiana

Violenza e rappresentanza

L’indebolirsi della rappresentanza politica e sindacale è il preludio di un'eterna sconfitta

di Davide Giacalone - 08 ottobre 2010

Non c’è solo un problema di violenza. Le ripetute aggressioni ai danni di sindacalisti (Cisl), per mano di altri sindacalisti (Fiom), non costituiscono solo un problema di ordine pubblico e non si risolvono solo con la pur meritatissima galera. La nostra democrazia soffre di un male diffuso, consistente nel moltiplicarsi delle rappresentanze delegate e lo scemare della rappresentanza reale. Cresce il numero dei rappresentanti, politici e sindacali, ma essi rappresentano sempre meno gli interessi di un corpo sociale che ancora spera di conservare il passato, perdendo la capacità, e forse anche la speranza, di governare il presente e guidarlo verso il futuro. Quanti si staccano dai cortei sindacali, per andare a bersagliare di sassate e altri atti vandalici le sedi sindacali, sono una minoranza, ma è minoranza anche chi riceve le loro violente e ingiustificabili attenzioni. La gran parte dei lavoratori è fuori dai circuiti sindacali.

Una parte del sindacato reagisce a questa crisi buttandosi sulla concertazione: non solo e non tanto le trattative con la controparte imprenditoriale, quanto la partecipazione alla definizione delle politiche governative. La concertazione, tanto amata dalla sinistra, è un vicendevole rafforzarsi. Con la vittoria elettorale del centro destra, però, è stato proprio il sindacato più a sinistra (la Cgil) a prendere cappello, preferendo cavalcare il disagio e la protesta. Complice la lunga campagna per la nomina del nuovo segretario generale, l’inseguimento dell’estremismo ha preso la mano.

Ha ragione Piero Ichino quando sottolinea che le sassate fanno male, ma anche le bugie non scherzano, e che se è garantita la libertà di criticare questo o quell’accordo, questo o quel contratto, non è lecito sostenere che violi la legge quanto la maggioranza dei lavoratori, mediante un referendum, ha accettato in uno stabilimento Fiat.

Quel tipo di tesi, quella contestazione di legittimità, costituisce la base teorica sulla quale innestare condotte violente, vissute come ribellione a coercizioni intollerabili e illegali. Ciò non toglie che un profilo di preoccupazione costituzionale ci sia, ma risiede nella non applicazione dell’articolo 39, in cui si stabilisce che i sindacati devono essere registrati e che devono avere uno statuto capace di assicurare la democrazia interna.

E prosegue affermando che ciascun sindacato può stipulare contratti con efficacia obbligatoria, ma sulla base della propria effettiva rappresentatività. Non ho notizia di sindacati e forze politiche che ne reclamino l’applicazione, in compenso un fiume di denaro s’incanala laddove è assente la regolamentazione e il controllo.

Avere, a lungo, dismesso le regole della rappresentanza reale, nel mondo sindacale come il quello politico, induce la sensazione che quegli incontri di vertice, quei “tavoli” di trattativa, siano divenuti conciliaboli fra burocrazie autoreferenziali. Più che “corpi intermedi” sembrano “corpi estranei”.

E, del resto, non si ha notizia neanche di vertici sindacali che vivano la vita dei lavoratori e che, alla fine del mandato, tornino al mondo produttivo anziché incistarsi in quello politico, o accasarsi nei mille incarichi paragovernativi che la fantasia istituzionale fa germogliare anche da tronchi morti della foresta burocratica. Ci sono sindacalisti finiti in Parlamento, alla Rai, al Cnel, negli enti, ovunque, tranne che in un posto: a lavorare.

Una Cgil sempre più “antagonista” occupa, inoltre, un posto rilevante nel variopinto panorama della sinistra. Né potrebbe essere diversamente, visto che sono gli unici a potere riempire le piazze e visto che la sinistra “ufficiale” discute della possibilità di affidarsi alla guida di Luca Cordero di Montezemolo.

Dobbiamo a Goffredo Bettini, vecchio e combattivo comunista romano, l’aperta teorizzazione di tale possibile alleanza. O devo chiamarla joint venture? Cui subito ha fatto eco il segretario del Partito Democratico: ogni cosa va bene, se serve a battere Silvio Berlusconi. Ma come è possibile che i medesimi uomini passino dalla lotta di classe all’accordo charmant, dall’accompagnare Enrico Berlinguer ai cancelli della Fiat a seguire l’altalenante sodale di Gianni Agnelli? Che questo avvenga non per aperta mutazione ideale, ma per mero travestimento elettorale, è disdicevole.

Oggi è urgente la condanna della violenza, senza distinzione di schieramenti. Lanciatori di candelotti e sassi sono nemici della democrazia, ma anche di una sinistra capace di governare. Sullo sfondo, però, c’è una questione più generale, che coinvolge tutti circa l’indebolirsi della rappresentanza e riguarda specificamente la sinistra circa la giustificazione di ogni cosa pur di battere l’avversario. Non solo è una politica detestabile, non solo ne consegna gli artefici in mano agli estremisti (compresi quelli della destra giustizialista), è anche la via sicura verso l’eterna e opportuna sconfitta.

Pubblicato da Libero

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