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Il declassamento dell'Italia

Via Standard&Poor's

La società delle pagelle ci ha bocciato di nuovo, con il merito di riportarci alla realtà della crisi

di Enrico Cisnetto - 12 luglio 2013

Meno male che c’è Standard & Poor’s. Quando, sia la decisione della Ue di chiudere la procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, che già avevo illuso molti di avere di nuovo soldi da spendere, e sia lo spread calmierato dalla Bce, stavano definitivamente narcotizzando l’italica percezione della crisi – già bassa di suo – ecco che è arrivata l’ennesima riduzione del rating, stavolta appena un pelo sopra il livello “junk”, a suonare la sveglia. Ora, le società delle “pagelle” sono quello che sono, tanto che i mercati non hanno minimamente dato peso a S&P, e il differenziale tra Btp e Bund è rimasto tra i 270 e i 290 punti (comunque alto, alla lunga, ma certo lontano dalla zona pericolo). Ma almeno questa bocciatura ha il pregio di riaccendere fari ormai spenti sulla crisi, sul fatto che non è per nulla finita e che il chiacchiericcio sulla ripresina prossima ventura è cosa non soltanto lontana dalla verità ma inutile ai fini di un cambiamento di umore della società italiana, e di quella economica in particolare.

Vediamo, dunque, come stanno davvero le cose, partendo dalla finanza pubblica. La prima cosa che deve essere chiara è che l’Italia è sì tornata “regolare” nel rapporto deficit-pil, ma che ciò vale solo per ieri e non per domani, e che soprattutto non vale per il debito, che ha sfondato il tetto del 130% rispetto al pil. Dunque, a politiche europee invariate, è comunque impossibile che si creino significativi margini per tornare a spendere in deficit. Ma la seconda osservazione che va fatta è ancora più cogente: tutto fa presagire che sia impossibile rispettare anche per quest’anno l’impegno di contenere il disavanzo entro il 3% del prodotto lordo, e quindi escludere il rischio delle sanzioni previste dal nuovo Patto di stabilità Ue. Prima di tutto perché la previsione del governo di una caduta del pil dell’1,3% è ormai superata (arriveremo a -2% o giù di lì), e poi perché gli impegni di spesa (rifinanziamento della cassa integrazione e “pacchetto lavoro”) o di rinvio di tasse (Imu e Iva) già assunti fanno presumere che lo sforamento sarà almeno di mezzo punto se non di uno intero. Ma sarà sufficiente per indurre Bruxelles, garantita dalla “clausola di salvaguardia” sottoscritta da Roma, a chiedere al governo Letta un’immediata manovra correttiva di bilancio. Il che potrebbe rivelarsi letale per una maggioranza che fin qui non ha saputo trovare le ragioni di una costruttiva coesistenza, e che dunque rischia di bruciare, dopo quello del governo tecnico, anche lo strumento della grande coalizione, l’ultimo a disposizione prima di cadere nell’ignoto.

Ma ciò che più conta è vedere com’è lo stato di salute dell’economia reale. E da quel fronte i segnali che arrivano sono disperanti. Molto peggio di quanto non dicano i già drammatici numeri ufficiali, secondo cui abbiamo perso il 15% del nostro manifatturiero e il 25% della produzione industriale. Tiene, e anche piuttosto bene in molti casi, quella parte di sistema produttivo – minoritario, purtroppo – che esporta ed è diventato a tutti gli effetti “globale”. Frana tutto il resto. E in tante situazioni, i problemi non sono ancora del tutto esplosi. Nel senso che gli imprenditori, un po’ per pudore e vergogna e un po’ per continuare a coltivare la speranza che il vento giri, hanno nascosto la verità, spesso anche a loro stessi. Taluni per pagare i dipendenti non pagano le tasse – quando il fenomeno esploderà, perché esploderà e anche politicamente diventerà la prossima frontiera del consenso, per i conti pubblici saranno dolori – altri ritardano i pagamenti ai fornitori, finendo con strozzare l’intero sistema.

Molti, poi, sono finiti fuori mercato perché già prima della crisi lo erano di fatto, ma avevano ritardato il redde rationem recuperando qualche margine di competitività con sistemi impropri (evasione, nero, ecc.). Ma un conto è innescare un’evoluzione darwiniana del nostro vecchio apparato produttivo, e di quella dei servizi (che stanno messi peggio dell’industria), e un altro assistere inermi al crollo – o alle sue premesse – di pezzi interi del sistema economico senza che ci sia la minima capacità di opporre resistenza. Non ci si rende conto, infatti, di quattro elementari verità. Primo: manca la consapevolezza della dimensione e portata della deindustrializzazione in atto. Secondo: quel poco di cognizione viene usata per cercare di difendere l’esistente, che nella stragrande maggioranza dei casi non lo è. Terzo: perché ci sia la dialisi tra vecchio che muore e nuovo che nasce occorre mettere mano alla politica industriale, non aspettare che il quadro evolva da solo. Quarto: la politica industriale necessita di risorse – che non ci sono e dunque occorre un piano Marshall basato sul patrimonio pubblico e quello privato – e dell’avere in testa il modello di sviluppo verso cui muoversi.
Governo avvisato, mezzo salvato.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.