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Public Policy

Vera ripresa o solo un’illusione ottica?

Verso un'exit-strategy vincente

E' il momento di introdurre concretamente le nuove regole della finanza e la nuova architettura dei controlli

di Angelo De Mattia - 12 gennaio 2010

La calza della Befana contiene doni o punizioni per l’andamento della nostra economia e, in specie, per quello dell’inflazione? Ci prepariamo alla ripresa o i debolissimi indizi che scorgiamo sono solo, per ora, una illusione ottica? “Per la contraddizion che nol consente” non si potrebbe dare, come fanno esponenti del Governo, un giudizio positivo dell’inflazione registrata nel 2009, il cui indice medio si attesta allo 0,8 per cento, e un giudizio altrettanto positivo del dato tendenziale di dicembre in salita- l’1 per cento – come presunta prova della ripresa dei consumi e delle attività economiche.

Per di più, come ha precisato l’Isae, all’inizio di quest’anno la dinamica inflazionistica potrebbe segnare una nuova risalita, tenuto conto dell’intervenuto aumento di alcuni prezzi e tariffe. E qualcuno comincia a quantificare il futuro del tasso verso il 2/3 per cento. Per un altro verso, si ripropone, con un non misurabile fondamento, la sotterranea querelle sulla fondatezza del dato rilevato, segno di ancora non superate incomprensioni che decorrono dall’epoca dell’introduzione della moneta unica e dell’adozione, anche sulla base di alcune osservazioni della Banca d’Italia allora svolte, della misura dell’ inflazione percepita. Sarebbe, comunque, interessante raffrontare il dato sull’inflazione con l’andamento crescente della spesa pubblica primaria, ma anche con il peggioramento delle condizioni per le famiglie tenute al rimborso di prestiti bancari.

In ogni caso, facciamo pure astrazione dalla disputa sull’incremento o no dei salari oltre l’inflazione in base al nuovo modello contrattuale, una disputa che vede ora contrapposte Cgil e Cisl, in posizioni rispettivamente negativa e positiva. Cosi come consideriamo il raffronto con il 1959, quando si verificò lo stesso (lievissimo ) aumento del tasso di inflazione, solo una curiosità storica, tanto diversi sono i relativi contesti e le situazioni dell’economia in generale, del lavoro, in particolare,della produzione, della produttività, della finanza pubblica, insomma di tutti gli aggregati. Erano quelli, che sono stati definiti come i meravigliosi cinquanta, gli anni di crescita sostenuta, al 5/6 per cento, con prospettive amplissime di lavoro per i giovani, davanti ai quali si profilava un futuro di inserimento attivo nella società, di sviluppo individuale e familiare. Un avvenire di soddisfazioni e di serenità per chi si era preparato con lo studio o con il lavoro ad affrontarlo.

Quella inflazione era segno di benessere, di un solido progredire; in definitiva, un segno di salute. L’inflazione che si registra ora, mentre si ripresentano i discorsi sugli sviluppi e sulla ripresa a U, a V o a W , è segno ancora di una non buona salute; al più, di una incerta convalescenza. È , soprattutto, “ merito” della disoccupazione e delle perduranti, incerte prospettive che incidono sui bassi livelli di consumo. E’ la conseguenza di un quasi stagnare dell’economia. Altro che, dunque, ritenersi soddisfatti; semmai, si può considerare il dato – se definitivamente confermato – come il male minore, come il segnale dell’essere riusciti a schivare il rischio della stagflazione. Ma, poi, bisogna pensare al “ che fare “ per il futuro.

Per ora, a livello globale ed europeo, non si profilerebbe un pericolo di impennata dell’inflazione, comunque di surriscaldamento dell’economia. Non sembra, dunque, che vi siano le condizioni perché scatti un particolare segnale di allerta della Banca centrale europea, né che le previsioni sull’andamento dell’inflazione giustifichino un’accelerazione verso il completo ritiro degli aiuti e delle misure monetarie di sostegno disposti per contrastare la crisi.

Si è ripreso a discutere, dopo la pausa natalizia, di exit-strategy. L’opinione al momento prevalente ( Krugman, Stiglitz) segnala il rischio di considerare troppo frettolosamente superata la crisi, con la conseguenza di cadere negli stessi errori compiuti nel 1937, dopo la crisi del ’29. Si sostiene, all’opposto, che questo sarebbe il momento per ulteriori stimoli all’economia, per evitare una ricaduta. E’, comunque, il momento per introdurre concretamente le nuove regole della finanza e la nuova architettura dei controlli . In effetti, risulterebbe paradossale se, dopo una gestione dell’azione di contrasto della tempesta finanziaria nel complesso non negativa, pur partendo da errori che hanno agevolato lo scoppio della crisi, ora si dovesse clamorosamente sbagliare nell’affrontare la fase della fuoriuscita, provocando quei danni che sono stati evitati nella fase precedente.

Dovrebbe essere chiaro che di attuazione di una strategia della specie si potrà parlare – pur avendola sulla carta definita in precedenza – solo quando saranno effettivamente ripartiti gli investimenti. Prima sarebbe assolutamente azzardato passare al ritiro delle misure straordinarie, soprattutto perché oggi nessuno è ancora in grado di stabilire che i pallidi segnali di riavvio siano dovuti al miglioramento delle condizioni di fondo dell’economia – il che, per la verità, non sembrerebbe – oppure proprio all’effetto che si protrae degli aiuti degli Stati e delle banche centrali. Non impone il ritiro , in particolare, la valutazione degli effetti dell’enorme liquidità che è stata immessa nel sistema, dal momento che, come si è detto, non è alle viste il rischio di un surriscaldamento dell’economia. Né, almeno per il momento, vi sarebbe la necessità di ricorrere alla leva dei tassi di interessi per contrastare il formarsi di bolle, che tali non si configurano.

Nel previsto vertice dell’11 febbraio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea – il primo dopo la nomina dei nuovi organi della Comunità – sarebbe doveroso che su questa materia si assumessero dei precisi indirizzi, superando le genericità che finora si sono constatate a proposito delle misure straordinarie e della exit-strategy, senza che mai siano stati indicati i criteri che dovrebbero presiedere alla concreta attivazione della stessa strategia.

I rischi che incombono sui conti pubblici vanno controllati con misure ad hoc, prima di fare ricorso alla leva della politica monetaria e, in ogni caso, prima di porre il banchiere centrale nella condizione di dovere intervenire per la salvaguardia, in ultima analisi, della stabilità dei prezzi. I segnali positivi che,con qualche contraddizione, stanno venendo dalle borse e anche dall’industria a livello globale dovrebbero sollecitare a un governo quanto mai attento della politica economica, per poter cogliere un’onda favorevole.

Quanto all’Italia, premesso che, quando sarà il momento, si dovrà valutare quali elementi specifici si richiedono per una strategia di uscita dalla crisi in considerazione delle peculiarità della nostra situazione economico-finanziaria, il modo più efficace per fare ciò che il governo, per bocca dei suoi ministri, afferma di voler fare - cioè promuovere la crescita e tenere sotto controllo le spinte inflattive - è quello di stimolare la domanda interna sulla quale occorrerebbe puntare in questa fase più che sulle esportazioni e, nel contempo, avviare finalmente le riforme strutturali. Di questa accoppiata non si può fare a meno, se si vogliono evitare i pericoli del riproporsi di nuovi contesti di crisi, e si vuole innescare un meccanismo di risalita che prevenga anche un ritorno dell’inflazione, ancorché per livelli non eccezionali.

In definitiva, il dato dell’inflazione va considerato non solo per quel che ci dice e ci prospetta – oltre alla necessità di maggiori progressi sulla strada dell’informazione statistica e della affidabilità dei dati, dopo le pur importanti innovazioni apportate in materia – ma anche, e soprattutto, per il contesto in cui si colloca, per le sue interrelazioni, e perché attualizza la necessità delle riforme di struttura e di politiche di liberalizzazione e per la concorrenza. Soprattutto, evidenzia quali sono gli effetti a catena dei problemi, acuti, del lavoro.

Torna, così, a riproporsi la necessità di quelle innovazioni economico-sociali di cui ha parlato il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno, considerandole strettamente connesse alle riforme costituzionali e istituzionali. Esse si richiedono nel superiore interesse del Paese, al quale ha fatto riferimento anche il Presidente della Camera, commemorando nei giorni scorsi Enrico De Nicola.

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