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E' ora di cambiare la natura del sistema politico

Verso una stagione (ri)costituente

Occorre uscire dall'empasse prima che la crisi ci trascini verso un declino irreversibile

di Enrico Cisnetto - 28 gennaio 2011

Sembra una contraddizione, ma non lo è. Mentre impazza la crisi politica e il presidente della Repubblica si sgola per chiedere che l’economia venga tenuta prudentemente al riparo da una lotta condotta ormai senza più alcuna esclusione di colpi, ecco che dai mercati giungono notizie (almeno momentaneamente) consolanti. Da un lato, il Tesoro ha collocato Bot a 6 mesi e Ctz a 2 anni non solo a fronte di una domanda sostenuta (fin qui non è mai mancata) ma anche con rendimenti in regresso, e pure in misura consistente (finora erano in salita).

Conseguentemente, lo spread Btp-Bund si mantiene entro i 160-165 punti base, cioè lontano dai due punti percentuali e oltre cui era arrivato nei momenti di massima tensione. Dall’altro lato, il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, a Davos addirittura teorizza che l’Italia abbia inventato l’arte di tenere sotto controllo la finanza pubblica nonostante le turbolenze politiche. Sembra, appunto, un controsenso: stigmatizziamo la crisi politica – tra l’altro, prolungata e apparentemente senza sbocco – perché foriera di conseguenze nefaste per l’economia e i conti pubblici, e poi i mercati se ne fregano e autorevoli personaggi ne traggono la conclusione che siamo dei maghi.

In realtà, le cose stanno un po’ diversamente. Perché se da una parte la spiegazione dell’apparente contraddizione ha un nome e un cognome – Giulio Tremonti, cui va dato il merito di aver tenuto la barra dritta nonostante tutti, a cominciare dal premier, lo tirassero per la giacca per indurlo ad aumentare una spesa pubblica che è già il 52% del pil – per altro verso il problema dell’influenza negativa della cattiva politica sull’economia c’è, eccome se c’è.

Solo che non riguarda la congiuntura dell’una e dell’altra – dunque né la crisi, pur perdurante, né eventuali elezioni anticipate provocano effetti di mercato – ma la loro dimensione strutturale. Tradotto: è l’esito fallimentare del sistema politico, incapace di esprimere “governo” nel lungo periodo, che danneggia in modo non estemporaneo ma continuativo l’economia. Danno che si misura con l’andamento della curva del pil, che da quasi due decenni segnala un livello di crescita inadeguato. E qui le ultime notizie non sono affatto rassicuranti. Ormai è assodato che l’anno scorso si è chiuso con una crescita che nel migliore dei casi è stata dell’1% (contro l’1,7% Ue, il 2,5% Usa, il 4,6% mondo), risultato che chiude il peggior decennio (2001-2010) dal dopoguerra in poi: solo 2,7 punti di incremento del pil in totale, cioè una media annuale dello 0,27% (si pensi, per esempio, che negli anni Settanta l’Italia è cresciuta ad una media annuale del 3,8%, negli anni Ottanta del 2,41% e negli anni Novanta dell’1,59%). Ma anche le prospettive sono grame: l’Fmi ci attribuisce un altro +1% anche nell’anno in corso e un +1,3% nel 2011; ma la Banca d’Italia è ancora più negativa, visto che le due stime non vanno oltre il +0.9% e il +1,1%.

Questo significa che andando di questo ritmo (si fa per dire) per recuperare la caduta di 6,3 punti percentuali provocata dalla recessione 2008-2009 bisognerà arrivare al 2015. Non è un caso che la Confindustria, dopo aver spiegato che a fine 2010 la produzione industriale era ancora sotto del 17,8% rispetto ai livelli pre-crisi mondiale, abbia lanciato un grido d’allarme e chiesto un qualche choc positivo (anche a costo di andare alle elezioni e di cambiare premier). Considerato che consumi e investimenti sono al palo, e che solo l’export tiene un buon ritmo (ma prima che recupereremo le quote di mercato perdute ci vorranno anni), è evidente che il solo sistema economico, senza interventi pubblici, non è in grado di dare la svolta necessaria al Paese per cambiare rotta.

E qui torna il discorso sulla crisi che da luglio scorso ha definitivamente paralizzato un sistema politico che già era ampiamente atrofizzato. Non produrrà conseguenze immediate sui mercati – per fortuna – ma di sicuro impedisce di invertire una rotta che ci sta portando nel pieno di un declino che rischia di diventare irreversibile. Anche perché genera sfiducia, che a sua volta alimenta la spirale negativa, e lo “spettacolo” cui assistiamo in questi giorni – in cui il bipolarismo si è ridotto alla contrapposizione sulla tesi berlusconiana, negazionista su responsabilità palesi (comportamentali, non c’è bisogno di ricorrere alla moralità) e accusatorio nei confronti dell’altrettanto palese atteggiamento persecutorio della magistratura, quando è evidente che le due accuse non si elidono ma si sommano – certo non aiuta a generare domanda e investimenti.

Dunque, non c’è dubbio che occorra uscire dall’impasse. Avendo bene a mente che se i limiti dell’economia italiana sono strutturali, il cambiamento da produrre sulla scena politica non può essere congiunturale, di breve respiro. Come minimo c’è da cambiare la natura del sistema politico. Come massimo, e come è auspicabile, c’è da aprire una stagione costituente. Anzi, (ri)costituente.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.