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Il corposo problema fiscale italiano

Verso il varo dello scudo fiscale ter

Occorrerebbe ben altro che una manovrina. Non si può sempre agire “sotto la tirannia del momento”

di Angelo De Mattia - 23 giugno 2009

Nella manovrina che si profila per venerdì prossimo, il Governo includerebbe, salvo modifiche, anche il varo dello scudo fiscale ter, di cui si è lungamente parlato nelle scorse settimane. Dopo il G20 di Londra che ha promosso una forte iniziativa contro l’opacità dei paradisi legali e fiscali, in Europa si è cominciato ad esaminare la possibilità di rimpatrio “agevolato” dei capitali investiti nei centri offshore. Il Governo italiano è stato tra i primi a valutare quest’ipotesi, dopo aver escluso qualsiasi forma di inasprimento fiscale per la ricostruzione delle abitazioni distrutte dal terremoto abruzzese.

Il rientro in forma anonima dei capitali in Italia, in occasione delle precedenti versioni dello scudo fiscale decise dal Governo Berlusconi del 2001, è stato deludente, per l’importo complessivo rientrato, 70 miliardi circa, tra rimpatri ed emersioni, e per i proventi conseguentemente destinati allo Stato sulla base di una imposta del 2,5 per cento. Oggi, però, innalzandosi in campo internazionale il livello delle azioni di contrasto dei mascheramenti propri dei paradisi legali e fiscali, il risultato potrebbe essere diverso. Molto dipenderà, tuttavia, da come l’operazione sarà strutturata. Innanzitutto, si dovrebbe trattare di rimpatrio, anch’esso anonimo e non anche di emersione dei capitali (probabilmente anche poco conveniente).

Inoltre, potrebbero o dovrebbero essere previste forme obbligatorie o incentivate di investimento delle somme rientrate (ad esempio, l’acquisto di titoli di Stato). A questo punto nasce il problema, cruciale, dell’aliquota fiscale alla quale assoggettare il rientro: se sarà troppo bassa verrà frustrato lo scopo perseguito di reperire, attraverso la regolarizzazione, risorse adeguate per concorrere, in particolare, alle ricostruzione delle zone colpite dal terremoto; se sarà troppo alta, si potrebbe significativamente scoraggiare il rientro.

In questi giorni, si fa riferimento a un’aliquota possibile tra il 7 e il 9 per cento. Quanto alle ipotesi dei capitali che potrebbero rientrare, si oscilla – sulla base, però, di incerti procedimenti di stima – tra i 100 e i 200 miliardi, sino a proiettarsi a somme superiori.

Se l’obiettivo perseguito con lo “scudo” può essere complessivamente condiviso – come si è scritto in passato su Mf|Milano Finanza – occorre, tuttavia, evitare che il rientro si traduca in un condono sic et sempliciter, che indebolisce la certezza del diritto e stimola comportamenti di elusione o evasione, nell’aspettativa della reiterazione di provvedimenti della specie.

Se, dunque, si conviene sulla necessità di non rimettere in circolo i condoni, allora è necessario fissare alcuni punti fermi. Innanzitutto, è quanto mai opportuno che un’operazione del genere sia realizzata sulla base di una larga convergenza a livello europeo. Sarebbe deleterio agire a ranghi sciolti. Ancor più deleteria sarebbe una competizione fiscale al ribasso tra i Paesi dell’Unione europea.

In secondo luogo, così come accadde a metà degli anni ’70 quando fu promosso il rimpatrio di capitali illegittimamente esportati all’estero e contemporaneamente fu approvata una legge, che sarebbe entrata in vigore alla fine del periodo fissato per il rimpatrio, la quale trasformava l’illecito amministrativo in materia valutaria in illecito penale, appare necessario che sia prevista l’entrata in vigore, dopo il periodo di operatività dello scudo, di un regime sanzionatorio sul piano legale e fiscale di particolare rigore per i capitali illegalmente investiti nei centri in questione. L’inasprimento sanzionatorio – unitamente alle iniziative promosse in campo internazionale in applicazione degli impegni del G20 di Londra – rappresenterebbe anche uno stimolo perché il rimpatrio avvenga ora.

Infine, dovrebbe essere attentamente studiato e chiarito il meccanismo con il quale si attuerebbe la destinazione delle somme rientrate a particolare forme di investimento (se così sarà deciso) mantenendo l’anonimato (in particolare, se vi sarà l’intervento di uno schermo rappresentato dalle fiduciarie e come questo nesso sarà configurato).

Insomma, se con lo scudo fiscale si vuole mantenere fede all’impegno fin troppo reiterato ed abusato di non mettere le mani nelle tasche degli italiani pronunciato anche quando fu affrontato il problema della ricostruzione post terremoto, allora è necessaria una soluzione limpida, rigorosa, che non si muova, alla fin fine, in senso contrario agli stessi impegni londinesi, che non intenda porre rimedio a comportamenti di elusione o di evasione attraverso un condono: un rimedio pari al male.

Ieri, del resto, il problema fiscale italiano è emerso in tutta la sua corposità con i dati Eurostat: tassazione del lavoro più alta a livello europeo e pressione fiscale complessiva ai primi posti, sempre in Europa. Al di là delle esigenze di riforma che questa situazione pone, è doveroso che non vi sia alcun benign neglect nei confronti di chi evade: anzi, è necessaria una lotta vera, efficace, senza cedimenti, all’evasione.

Comunque, occorrerebbe ben altro che una manovrina. Si ritorna, infatti, sempre al punto di partenza. Non si può sempre agire “sotto la tirannia del momento”, per impiegare l’espressione di un noto autore.

Resta ancora necessaria una manovra di politica economica in previsione dell’autunno – si vedano i dati, niente affatto beneauguranti, di ieri su fatturato e ordinativi nel mese di aprile – che avvii le riforme strutturali e contemporaneamente liberi risorse per uno stimolo più forte alla domanda aggregata. E’ nell’organicità del Governo dell’economia che possono trovare soluzione problemi che non possono essere caricati solo sullo scudo fiscale.

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