Standard & Poor’s in tribunale
Vai Obama
La lezione USA: il mercato non può emettere giudizi che abbiano valore politico, chi sbaglia deve pagare.di Davide Giacalone - 07 febbraio 2013
Barack Obama ha fatto un grande piacere all’Italia. Lo ha fatto al mercato. La sua decisione di portare Standard & Poor’s in tribunale, citandola per frode e chiedendo un risarcimento di 5 miliardi, è, forse, il primo punto di svolta della crisi. L’esito della causa sarà importante, ma non decisivo. Quel che conta è che, finalmente, la più grande e potente democrazia del mondo trova la forza per affermare due principi decisivi: a. il mercato non può emettere giudizi che abbiano valore politico; b. chi sbaglia deve pagare, altrimenti va a farsi benedire l’etica del mercato. Idee da maneggiare con cura, per non piombare nel disastro opposto, quello dello statalismo onnisciente e pianificatore.
La globalizzazione (fatto positivo), favorita dal realizzarsi di una condizione politica, vale a dire il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, a sua volta propiziata dalla supremazia militare dell’occidente democratico, ha contribuito a spostare il pendolo della storia, portandolo nell’area in cui il giudizio dei mercati valeva più delle volontà politiche. La finanziarizzazione, innestata sulla globalizzazione, ha dato luogo a un mercato il cui giro d’affari cartaceo è dieci volte quello dell’economia reale. In queste condizioni i singoli stati sono nani superflui. Compresa la più grande potenza. Difatti hanno preso bastonate. Ma, come sanno gli amanti della libertà, il mercato non si autoregola. Ha ragione Alberto Mingardi: il mercato è un processo. Non autoregolandosi s’ingozza. Le agenzie di rating, come qui sosteniamo da anni, non solo sono un monumento al conflitto d’interesse, ma hanno un potere spropositato, colpevolmente consegnato loro da regole sbagliatissime, come quelle che impongono di giudicare i portafogli investimenti sulla base dei giudizi espressi da quelle agenzie.
Noi italiani ne abbiamo fatte le spese: debitori onesti e puntuali siamo stati dipinti come insolventi cui era rischioso prestare i soldi. Ciò ci ha portato a pagare sempre di più, quindi a impoverirci, nel mentre continuavamo ad essere fra i più affidabili e remunerativi soggetti cui prestare soldi. Un Paese con un patrimonio che vale multipli del debito, e con un debito aggregato inferiore a quello medio dei paesi paragonabili, è stato descritto come sull’orlo della bancarotta. Da chi? Dagli stessi che poi guadagnavano grazie ai giudizi che emettevano. Noi queste cose le scriviamo da sempre, senza mai nascondere i guasti strutturali dell’Italia (che ora ricordiamo a una campagna elettorale alticcia, nel corso della quale neanche si propone di rimediare alla spesa pubblica troppo alta e fuori controllo). Altri, invece, usarono le agenzie e gli spread per farne clave da usare in una guerra tribale. Sono gli stessi, del resto, che non conoscono equilibrio fra il servilismo al mercato e il sogno di renderlo socialista, quindi di cancellarlo. Qualcuno ha pensato di reagire a quel ruolo (malato e malevolo) delle agenzie proponendo di crearne di proprie. Se non proprio italiana, almeno europea. Lo ha ripetuto, da ultimo, Silvio Berlusconi. Risposta sbagliata. Per capirlo basta guardare a chi ha pensato di risolvere così la faccenda: la Cina. La risposta corretta consiste nell’adeguare le regole alle evoluzioni del mercato. Non per negarle, ma per favorirne la capacità di creare ricchezza. E in attesa delle nuove regole valgano le vecchie. Quindi Obama prende S&P e la porta davanti a un giudice. Bravo.
E per il futuro? Per il futuro la valutazione dei debiti sovrani non deve essere né più severa né più accondiscendente, semplicemente non può che essere anche politica. Come è sempre stato. Credere che un Paese possa essere paragonato a un’impresa non è una semplificazione, è una cretinata. E per quel che riguarda le società quotate, o che emettano titoli del debito, non si tratta di creare valutatori pubblici (il cielo ci salvi!), ma di chiamare quelli di mercato a rispondere dei loro giudizi: mi dici che quel determinato titolo merita assoluta fiducia, con una bella tripla A? Bene, grazie, se è così è giusto che anche il valutatore ci guadagni, tenuto presente che è pagato dal valutato. Ma se la cosa si dimostra infondata e quello salta in aria la settimana dopo l’agenzia paga, da un apposito fondo dove ha depositato parte dei propri soldi, a tutela dei risparmiatori. Troppo rischioso? Cambi mestiere.
Obama ha dovuto attendere il secondo mandato per potere agire, e questo dà il segno di quali siano gli interessi in campo. Ringraziamolo e aiutiamolo, partendo da quella decisione per portare in sede internazionale la spinta alla necessaria riregolazione. Non contro il mercato, ma per liberare il mercato da una delle sue ricorrenti distorsioni della crescita.
Noi italiani ne abbiamo fatte le spese: debitori onesti e puntuali siamo stati dipinti come insolventi cui era rischioso prestare i soldi. Ciò ci ha portato a pagare sempre di più, quindi a impoverirci, nel mentre continuavamo ad essere fra i più affidabili e remunerativi soggetti cui prestare soldi. Un Paese con un patrimonio che vale multipli del debito, e con un debito aggregato inferiore a quello medio dei paesi paragonabili, è stato descritto come sull’orlo della bancarotta. Da chi? Dagli stessi che poi guadagnavano grazie ai giudizi che emettevano. Noi queste cose le scriviamo da sempre, senza mai nascondere i guasti strutturali dell’Italia (che ora ricordiamo a una campagna elettorale alticcia, nel corso della quale neanche si propone di rimediare alla spesa pubblica troppo alta e fuori controllo). Altri, invece, usarono le agenzie e gli spread per farne clave da usare in una guerra tribale. Sono gli stessi, del resto, che non conoscono equilibrio fra il servilismo al mercato e il sogno di renderlo socialista, quindi di cancellarlo. Qualcuno ha pensato di reagire a quel ruolo (malato e malevolo) delle agenzie proponendo di crearne di proprie. Se non proprio italiana, almeno europea. Lo ha ripetuto, da ultimo, Silvio Berlusconi. Risposta sbagliata. Per capirlo basta guardare a chi ha pensato di risolvere così la faccenda: la Cina. La risposta corretta consiste nell’adeguare le regole alle evoluzioni del mercato. Non per negarle, ma per favorirne la capacità di creare ricchezza. E in attesa delle nuove regole valgano le vecchie. Quindi Obama prende S&P e la porta davanti a un giudice. Bravo.
E per il futuro? Per il futuro la valutazione dei debiti sovrani non deve essere né più severa né più accondiscendente, semplicemente non può che essere anche politica. Come è sempre stato. Credere che un Paese possa essere paragonato a un’impresa non è una semplificazione, è una cretinata. E per quel che riguarda le società quotate, o che emettano titoli del debito, non si tratta di creare valutatori pubblici (il cielo ci salvi!), ma di chiamare quelli di mercato a rispondere dei loro giudizi: mi dici che quel determinato titolo merita assoluta fiducia, con una bella tripla A? Bene, grazie, se è così è giusto che anche il valutatore ci guadagni, tenuto presente che è pagato dal valutato. Ma se la cosa si dimostra infondata e quello salta in aria la settimana dopo l’agenzia paga, da un apposito fondo dove ha depositato parte dei propri soldi, a tutela dei risparmiatori. Troppo rischioso? Cambi mestiere.
Obama ha dovuto attendere il secondo mandato per potere agire, e questo dà il segno di quali siano gli interessi in campo. Ringraziamolo e aiutiamolo, partendo da quella decisione per portare in sede internazionale la spinta alla necessaria riregolazione. Non contro il mercato, ma per liberare il mercato da una delle sue ricorrenti distorsioni della crescita.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.