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2010: l’anno delle conseguenze della recessione

Urge riagganciare la ripresa

Molto dipenderà dal recupero di efficienza e di competitività nel nostro sistema produttivo

di Enrico Cisnetto - 11 gennaio 2010

Ormai non ci sono più dubbi: se il 2009 è stato l’anno della recessione, per l’Italia il 2010 sarà quello delle conseguenze della recessione stessa. Cioè, dobbiamo mettere in preventivo chiusure di imprese e conseguente, nuova disoccupazione. Non tanto per una contrazione dei consumi interni, che alla fine nel 2009 si sono ridotti di poco più dell’1% – anche grazie all’incremento medio dei redditi fissi, conseguenza di una riduzione dei prezzi delle materie prime e di un tasso d’inflazione che si conferma il più basso degli ultimi cinquanta anni (ancorché vada letto insieme alla riduzione di 6,5 punti del pil nel biennio) – quanto per la caduta verticale delle esportazioni.

D’altra parte, il commercio mondiale si è ridimensionato del 12% rispetto al 2008 (stima Fmi), che per noi ha significato un calo delle esportazioni di quasi un quarto del loro valore. Ed essendo la nostra economia, o meglio la parte più sana e di mercato del sistema economico, fortemente dipendente dall’export, ecco spiegato perché nel 2009 si sono messe le premesse per una scrematura senza remissioni dell’apparato produttivo manifatturiero. Nel corso dell’anno appena concluso, infatti, la nostra peggiore performance è stata quella relativa alla produzione, che secondo uno studio della Banca d’Italia è tornata ai livelli di metà degli anni Ottanta.

Ben 100 trimestri, un quarto di secolo. Consiglio vivamente ai membri del governo, alla sempre più disattenta Confindustria e in generale alla classe dirigente del Paese di leggere il paper intitolato “La crisi internazionale e il sistema produttivo italiano: analisi su dati a livello di impresa” che i Draghi boys Bugamelli, Cristadoro e Zevi hanno realizzato.

Ci troveranno dentro la chiave interpretativa di una situazione che non è affatto rosea come stupidamente ci si sforza di descrivere: la crisi mondiale ha raggiunto l’Italia mentre era in corso una lunga fase di stagnazione e ha colpito il sistema delle imprese nel mezzo di un processo di ammodernamento e ristrutturazione, avviatosi all’inizio del decennio per far fronte ai cambiamenti tecnologici e di mercato intervenuti, e per nulla concluso; questo solleva importanti interrogativi sulla capacità di reagire e riprendere il cammino di modernizzazione intrapreso, premessa ineludibile per un ritorno alla crescita che, diversamente dal passato, non potrà più dipendere solamente dal deprezzamento del cambio (come negli anni Settanta e Ottanta) o dalla forza della domanda mondiale (anni Novanta e Duemila).

Questo significa che il sommarsi della stagnazione antecedente alla crisi mondiale (figlia del ritardo con cui il sistema industriale italiano si stava adeguando ai paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica digitale) con la recessione (figlia del netto calo della domanda, soprattutto nei comparti manifatturieri più propensi all’esportazione ed in quelli dei beni strumentali) rende peculiare la condizione italiana rispetto a quella degli altri paesi competitor, e richiede ora uno sforzo di dimensioni non dissimili da quelle che in anni lontani portarono alla creazione dell’Iri e alla ristrutturazione del grande capitalismo famigliare sotto l’egida di Mediobanca.

Anche perché finora le imprese hanno reagito contenendo i costi, comprimendo i margini di profitto, e in un certo numero di casi adottando strategie di diversificazione dei mercati di destinazione dei beni, cercando di puntare su nicchie di mercato più stabili, ma solo molto marginalmente mettendo mano all’offerta. Mentre è chiaro che il nuovo quadro competitivo mondiale che emerge dalla crisi richiede una fortissima capacità di innovazione di processo e di prodotto, quando non addirittura la capacità di abbandonare settori maturi e preda dei paesi di nuova economia per affrontare il mare aperto di nuove frontiere produttive.

Inoltre, rispetto alle crisi del passato, questa volta la ripresa del commercio mondiale – che nel 2010 dovrebbe perdere secondo l’Fmi un altro 3% – sarà decisamente più lenta, mettendoci di fronte alla necessità di ridurre la nostra eccessiva dipendenza dalle esportazioni. E non ci sarà alcuna sponda valutaria, visto che nessuno prevede una diminuzione significativa dell’euro e comunque l’effetto svalutativo non sarebbe neppure lontanamente paragonabile a quello che produceva la lira.

Questo vuol dire che la ripresa dipenderà quasi esclusivamente dal recupero di efficienza e di competitività nel nostro sistema produttivo, i cui gap sono ormai più che noti. Ma dallo studio di Bankitalia emerge con chiarezza che hanno chance di farcela, o in qualche caso ce l’hanno già fatta, le imprese che nel periodo 2000-2006 avevano già avviato processi di ristrutturazione, e queste sono meno della metà perché il 46,8% delle imprese industriali e il 57,3% di quelli dei servizi non finanziari sono rimaste ferme.

Ma della metà “in marcia”, il 10% ha accumulato troppi debiti e il 15% ha limitato i cambiamenti al solo marchio. Ne rimane poco meno di un quarto, e di queste si può dire che abbiano varcato il Rubicone della crisi l’8%. Poco, per agganciare la ripresa. Possiamo riavviare il dibattito di politica economica da qui?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.