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Un’analisi sulle strategie di Gianfranco Fini

Una seconda Fiuggi per An?

Dietro alle sue ultime scelte, l’idea di creare una nuova destra in Italia

di William Longhi - 17 maggio 2005

Un colpo di proboscide ogni tanto. Una frustata a destra e una a manca. Giusto per ricordare agli altri, quelli di Fiuggi, non tanto chi è che comanda, quanto chi è che prova a riflettere sui destini della destra italica.

È l’elefantino blue che riemerge dalla coscienza politica di Fini, che si fa vivo quando le circostanze lo richiedono, come per questi referendum, ad esempio. L'annuncio a sorpresa di tre sì su quattro non è un sintomo di confusione mentale, e nemmeno una provocazione gratuita. E' l'elefantino che rispunta orgoglioso, per ricordare che per Gianfranco Fini la destra italiana avrebbe dovuto evolversi in ben altra direzione.

Quel simbolo pachidermico portò alla sconfitta l’unico vero tentativo fatto dal leader di An per smarcarsi definitivamente da Berlusconi. Per creare in Italia il partito che non c’è mai stato, quel partito conservatore di cui Croce non si è mai voluto far carico; che Sonnino o Salandra non sono mai riusciti a consolidare; che Giolitti non ha mai neppure provato a creare; e che dopo il fascismo è diventato sospetto e innominabile.

Era il 1999, c’erano le Europee e Taradash, il radicale Marco Taradash, aveva deciso insieme a Mariotto Segni di tentare la svolta definitiva: unirsi a Fini e regalare un partito reaganiano alla destra liberaldemocratica e libertaria, portando An oltre Fiuggi. Fare il partito repubblicano in Italia, per evitare la deriva neodemocristiana, per poter mettere in discussione la leadership carismatica di Berlusconi, per arginare il leghismo del localismo greve, per insufflare la cultura neoconservatrice e libertarian anglosassone nel paese del Vaticano, delle pensioni irriformabili, delle corporazioni imbattibili, delle privatizzazioni parziali e delle liberalizzazioni impossibili. Finì male, An perse molti voti, forse anche a favore della strepitosa lista Bonino dell’8,5%.

E Gianfranco Fini, senza troppi clamori, archiviò definitivamente qualunque ipotesi conservatrice giocata contro il Cavaliere, rassegnandosi al ruolo di sdoganato silente. L’idea non era sbagliata, Anzi. mancavano solo tre elementi: una classe dirigente all’altezza, una schiera di intellettuali pronti alla sfida, una base elettorale disposta a recepire il messaggio. La classe dirigente era quella che è tutt’oggi: la stessa del Msi, corretta con qualche democristiano di destra, come Publio Fiori, o altri personaggi dalle idee non esattamente originali, come Rebecchini o Selva. E pensare di creare il primo vero partito conservatore in Italia con Alemanno, Storace, Gasparri, La Russa e Urso non è evidentemente una cosa umanamente possibile.

L’oligarchia post-missina ha evitato accuratamente il ricambio interno, e ha coltivato una base giovanile in gran parte più tradizionalista che “conservative” in senso anglosassone. Stesso discorso vale per gli intellettuali di area, il secondo elemento mancante: Domenico Fisichella, padre nobile della svolta di Fiuggi, se ne va, ma il suo ruolo è stato per molte ragioni più di impedimento allo sviluppo di An che non di evoluzione. Il resto della galassia pensante di orientamento liberal-conservatore ha sempre guardato più a Forza Italia che non ad An, lasciando che il monarchico e cattolico Fisichella rimanesse il solo intellettuale organico della destra, privandolo di confronto interno, ma anche di ascolto sincero da parte del suo stesso partito.

E poi la base elettorale: An non cresce più da quando è nata, avendo di fronte a sè la diga di Forza Italia. E anche quando Forza Italia ha cominciato a perdere voti, questi non sono andati verso An, perchè non c’erano ragioni per un travaso simile. Non c’erano ragioni culturali, politiche o morali. An a destra non è mai stata percepita come un’alternativa a Fi, ma solo come una zavorra inevitabile: la destra di cui non si può fare a meno, ma che sui problemi reali non ha niente da dire di originale, di diverso. L’Udc sì, la Lega sì, An proprio no. Al limite, ripete il verbo berlusconiano a memoria, solo con un vocabolario più ridotto e con toni meno mistici. A queste condizioni An è nata per rimanere comprimaria. Si è voluto costruire il partito dell’identità popolare italiana, identificando quest’ultima con un presunto carattere cattolico-nazionale prevalente tra la gente che guarda a destra. E Fisichella su questa idea ha creduto di poter dare all’Italia il suo personalissimo partito conservatore.

Il solo risultato è stato il sostanziale appiattimento di An sul resto del centrodestra, con qualche patetico atteggiamento di accondiscendenza in più nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche rispetto agli alleati. Fini tutto questo lo ha evidentemente digerito assai male, comprendendo gradualmente, e dolorosamente, che il futuro di un moderno partito conservatore non poteva e non può poggiarsi sulla morale unica di Benedetto XVI, sul centralismo pseudo-patriottico o sulla difesa ad oltranza degli statali e dei privilegi corporativi. Ma ha dovuto subire rassegnato l’involuzione di An, che molto probabilmente finirà fagocitata nel nuovo partito unico del centrodestra senza potersi caratterizzare per qualche apporto culturale significativo, avendo lasciato tutte le iniziative di questi anni a Bossi, a Follini, a Casini, ai berlusconiani di ogni ordine e grado.

Le ultime uscite di Fini sul referendum, la sua propensione a votare tre sì su quattro, sono in fondo l’ennesimo colpo di proboscide di un politico che avrebbe voluto passare alla storia come il primo leader conservatore italiano, il primo politico capace davvero di porsi alla guida di una formazione orientata verso un franco conservatorismo cattolico-liberale e laico, tra don Sturzo, Einaudi e Malagodi. I suoi sì alla ricerca scientifica sono le convinzioni maturate lentamente da un politico che forse non si è ancora del tutto arreso al malinconico declino della destra post-missina; una destra che continua a guardare con ridicola disperazione ai Fisichella, ai Rebecchini, ai Fiori e ai Selva pronti ad uscire, ma non si preoccupa minimamente della sua spaventosa incapacità di attrazione e formazione di nuova classe dirigente.

William Longhi

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