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La Bce di fronte alla crescita continentale

Una politica economica per l’Europa

Cifre alla mano il supereuro è dannoso. La soluzione sono gli Stati Uniti d’Europa

di Enrico Cisnetto - 02 maggio 2007

Forse l’attacco di Nicolas Sarkozy al suo connazionale Jean-Claude Trichet, con il contemporaneo elogio della politica monetaria inglese, è dettato da ragioni elettorali. Ma ciò non toglie che abbia ragione: il “Supereuro” è un grave danno per l’economia europea, e la Bce è colpevole di ignavia. Perchè il nuovo massimo storico di 1,3682 dollari toccato dalla valuta del Vecchio Continente sarà pure la conseguenza delle difficoltà degli Stati Uniti – dalla fragilità dell’immobiliare, testimoniata da un ulteriore calo di compravendite a marzo, al deludente incremento del pil nel primo trimestre (solo +1,3%), che però smentisce chi parlava di imminente recessione – ma a questo punto è soprattutto figlio della (non) politica monetaria di Francoforte.

Infatti, proprio quando gli esperti calcolano in circa mezzo punto percentuale il discount di crescita che questo duraturo apprezzamento dell’euro provoca, ecco che il mercato è costretto a scontare per giugno un nuovo rialzo dei tassi da parte della Bce. E sospetta che Francoforte non sia in grado di tenere a freno l’euro, visto che segna il suo massimo storico pure sullo yen e tocca livelli altissimi sul franco svizzero (l’unica valuta che gli tiene testa è la sterlina, che sconta anche lei le attese di un rialzo dei tassi). D’altra parte, Trichet e colleghi non possono certo dirsi colti di sorpresa: il trend di crescita dell’euro sul dollaro è iniziato nel 2002, e se rispetto al giorno della sua nascita, l’apprezzamento della valuta continentale è stato “soltanto” del 18%, il rialzo dal livello minimo (quegli 82,30 cent toccati ad ottobre 2000) è stata del 66%, e quella dall’inizio di quest’anno del 3%.

Insomma, una lunga rincorsa, che ha avuto un’accelerazione a partire dalla fine della serie di ribassi dovuti alla bocciatura francese del progetto di Costituzione europea, che hanno portato l’euro a risalire del 15% da quel minimo toccato nel 2005. Così, se è innegabile che la risalita verso la parità e oltre – che tra l’altro non ha accompagnato ma preceduto il risveglio dell’economia dell’eurozona – aveva motivazioni più endogene che esogene, essendo in massima parte ascrivibile a una discesa tendenziale del dollaro più che ai meriti dell’euro, così negli ultimi tempi l’approdo ai livelli di oggi è dovuto ad un’oggettiva debolezza della moneta americana, cui non ha fatto fronte alcuna strategia europea.

Probabilmente la differenza sta nella mano che guida la Federal Reserve, passata dal furbo Alan Greenspan all’indeciso Ben Bernanke, che non sembra proprio in grado di tenere il timone con la maestria del suo predecessore. Ma questo, semmai, la dice lunga sulla pochezza Bce che o non si è posta l’obiettivo di calmierare la valuta (e sarebbe un grave errore), oppure se l’è posto ma non c’è riuscita (e sarebbe peggio). Per questo, dopo le elezioni francesi, c’è bisogno di un grande summit europeo che, avendo in animo il rilancio dell’integrazione politico-istituzionale, metta in agenda una revisione di Maastricht e la riscrittura delle regole d’ingaggio della Bce. Giorgio La Malfa l’ha suggerito: si applichi l’articolo 111,2 del Trattato comunitario e il consiglio dei ministri Ue si riappropri della politica economica. La quale, tra i suoi obiettivi, oltre alla sacrosanta lotta all’inflazione, deve porre prima di tutto la tutela della crescita.

Pubblicato su La Sicilia di domenica 29 aprile

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