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La Seconda Repubblica non è mai nata

Una lunga ed eterna agonia

Sono passati diciotto anni ma nulla è cambiato. Rubavano prima, rubano oggi

di Davide Giacalone - 17 febbraio 2010

Se l’arresto di un socialista milanese fosse la data di nascita della seconda Repubblica, questa, oggi, compirebbe diciotto anni. Non le faccio gli auguri, non sembra affatto una maggiorenne, e neanche una bambocciona, in realtà è un’illusione: la seconda Repubblica non è mai nata. Il 17 febbraio 1992, però, è una buona data di riferimento, da lì comincia un percorso, che non si è ancora concluso: la morte della prima Repubblica. Quella che viviamo, da troppo tempo, è l’agonia.

Una Repubblica nasce quando si crea un nuovo assetto costituzionale, anche se la data di nascita, magari, si fa risalire all’evento che abbatte il precedente. Qui c’è la data, ma manca il nuovo assetto. La Costituzione è sempre la stessa, con la sola eccezione del titolo quinto, sciaguratamente modificato con un prepotente voto a strettissima maggioranza, senza il benché minimo dialogo istituzionale che, a chiacchiere, s’invoca. Con quella riforma, però, non è certo nata la Repubblica federale, si sono solo colpite le ginocchia della Repubblica che c’era e che c’è. Eppure, si dirà, il panorama politico è del tutto diverso da quello di un tempo. E’ vero, ma perché la prima Repubblica è stata svuotata dall’interno, senza per questo far nascere nulla di nuovo e duraturo.

L’orrido ha del comico, quando si pretende di ripetere che la prima Repubblica fu abbattuta per moralizzare la vita pubblica, che con le inchieste giudiziarie si cacciarono i ladri. Quel che è successo è ben diverso, perché una volta liquidata la vecchia classe politica si sono potute realizzare le più mastodontiche sottrazioni di ricchezza pubblica, anche mediante privatizzazioni colpevolmente dissennate. Morta la politica s’è messo in atto un massiccio trasloco di ricchezza dalle casse dello Stato a quelle di pochi privati, e neanche prevalentemente italiani. Abbiamo sempre avuto un capitalismo familiare, assistito e blindato dai patti di sindacato, officiati da Enrico Cuccia. Un capitalismo senza capitali. Ci siamo ritrovati, però, con finanzieri al servizio di scorribande corsare, destinate a portare fuori d’Italia la ricchezza. Un esempio per tutti: Telecom Italia. Non mi pare un gran passo in avanti.

Ma, almeno, è diminuita la corruzione diffusa e la richiesta di tangenti? Chi lo dice è un bugiardo, o direttamente un marziano. I soldi illeciti hanno smesso d’avere finalità partitiche e politiche (che non è un’attenuante, che non vuole essere una scusante, ma è un fatto) per trasformarsi in affare personale o di gruppo. Le mazzette erano al servizio della politica, ora la politica è strumentale alla percezione delle mazzette. Nella cogestione spartitoria della prima Repubblica, con le partecipazioni statali che riservavano un quarto degli spazi alle cooperative, la sinistra prendeva il suo, e uomini fidati lo gestivano per il Partito Comunista (sommando quei soldi a quelli sporchi di sangue, provenienti dagli affari dell’est). Ora s’è persa l’unitarietà e coerenza della gestione, con gruppi rivali che si contendono brani d’opere e affari pubblici, segnando la prevalenza degli uni o degli altri, a seconda di quale amico sta gestendo il partito e le faccende governative. Non credo ci sia nulla da rimpiangere, ma nemmeno nulla di cui compiacersi.

Una cosa, però, va osservata: nella Milano dei socialisti il Pio Albergo Trivulzio costava più del dovuto, ma era bello, nella Milano di oggi le mazzette girano lo stesso, ma mi sfugge la realizzazione di cui essere orgogliosi. La prima Repubblica è stata svuotata come un uovo di gallina, anche dal punto di vista economico, salvo poi pretendere di mettere un pulcino di struzzo nello stesso guscio. Si è partiti con la democrazia dell’alternanza, con i due poli, poi trasformatisi in due partiti.

In realtà s’è allacciata un’altalena politica che, fin qui, ha condotto la maggioranza di governo a perdere le elezioni. Non è nata una cultura e un’identità di centro destra, mentre la sinistra è multicolore perché incolore. Nei fatti s’è sforzato il Paese a prendere parte all’unico scontro che la politica è riuscita a concepire: pro o contro Silvio Berlusconi. Taluni s’entusiasmano, i più guardano attoniti.

La magistratura fu la punta di lancia che squarciò la prima Repubblica, ma per farlo dovette tradire il diritto e divenire potere. Un percorso lungo, che altrove ho ricostruito, quel che qui c’interessa è l’approdo: la scomparsa della giustizia, di cui si celebra l’annuale funerale. Alla procura di Milano si mosse un gruppo composito, denominato pool.

Dopo diciotto anni c’è chi è in pensione è chi in Parlamento. Vi dice qualche cosa? Uno di quelli che siede in Parlamento, Gerardo D’Ambrosio, osserva le inchieste di questi giorni e dice: non sarà un nuovo 1992, perché manca l’indignazione popolare. Due messaggi, in poche parole: a. allora si amministrò la piazza, non la giustizia; b. ora la piazza non ci crede più. Credo sia colpa anche di chi liberò posti per poi occuparli, di chi gestì le inchieste salvando interi gruppi, di chi accusò molti di ciò che non avevano fatto.

La prima Repubblica doveva morire, perché malata e interpretata da una classe politica che aveva perso il senso della realtà. Era corrosa dall’interno, anche per la troppa ricchezza illecita dei suoi protagonisti. Ma fu assassinata. Le forze politiche che, nel 1992, avevano riscosso la maggioranza assoluta dei voti due anni dopo erano scomparse dalle schede elettorali. Fu un colpo allo Stato. Certo, facilitato dalla fragilità, ma anche dalla lealtà di quel mondo politico, che si fece processare. Diciotto anni dopo è normale vedere degli indagati e dei rinviati a giudizio che si candidano alle elezioni, così com’è normale sostenere che si rifiuta d’essere processati. Diciotto anni fa i potenti si dimisero e si fecero processare. Alcuni anche condannare, mentre gli assolti divennero zombi di un mondo scomparso, sempre sotto accusa da parte di un moralismo senza etica che s’è direttamente costituito in partito (portando in famiglia i soldi del finanziamento pubblico).

Ultimo dettaglio: l’Italia non è mai cresciuta così poco come negli ultimi diciotto anni. E’ colpa della crisi, dicono quelli in mala fede, o che non sanno quel che dicono. No, perché è cresciuta la distanza dai Paesi omologhi, e la crisi c’era anche per loro. Lo tenga a mente, chi crede che la morte della prima Repubblica abbia liberato le mani all’economia. Ci accingiamo a festeggiare il 150 anni dall’Unità (ne parleremo), cominciamo, almeno, a non raccontare più troppe balle sugli ultimi diciotto.

Pubblicato da Libero

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